Un fantasma si aggira per l’Europa: l’Europa

Di Eugenio Mazzarella Giovedì 13 Ottobre 2022 10:11 Stampa
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C’è ancora l’Europa? O un fantasma si aggira per l’Europa, ed è l’Eu­ropa stessa? E quando questo fantasma ha cominciato a circolare? Sono domande non più aggirabili dopo l’Ucraina. Che al di là della tragedia in sé politica e umana, per il diritto internazionale e il diritto delle genti, che rappresenta, è da cinque e più mesi la cartina di tor­nasole del bivio davanti a cui si trova la costruzione europea, almeno per quel che voleva essere; e dei bivi che nei decenni passati, quando doveva, l’Europa non ha imboccato.

E cosa ci mostra questa cartina di tornasole? Un destino dell’Europa politicamente eterodiretto dal suo sistema di alleanze, al traino, e non alla guida comune, di quel che doveva essere il suo strumento di sicurezza militare, la NATO. Quel che doveva essere – e che in ampia parte è stato – l’ombrello di protezione e sicurezza geopolitica dell’Europa come comune costruzione europea, l’Unione, nella sta­gione della guerra fredda, si sta rivelando, in una peraltro prevedibile eterogenesi dei fini, un fattore di destabilizzazione dell’Europa, e del progetto dell’Unione europea. A rischio di mandarne in frantumi, se già questo non è un dato di fatto irreversibile, la possibilità che si era aperta con la caduta del muro di Berlino di un suo allargamento allo spazio europeo che era rimasto, dopo la seconda guerra mondiale per quattro decenni, al di là della cortina di ferro.

Siamo a questo paradosso, che poi paradosso non è, per i bivi che la costruzione europea – per un intreccio di deficit di lungimiranza poli­tica europea all’altezza dei padri fondatori, Schumann, Adenauer, De Gasperi, e di egoismi nazionali (l’incapacità di cedere quote di sovrani­tà nazionali, peraltro su molti terreni obsoleti nel mondo della globa­lizzazione, per guadagnare in questo stesso mondo maggiori quote di sovranità sovranazionale, europea, comunitaria) – non ha imboccato. Per tacere dei bivi non presi, ma ancora forse percorribili sotto la spinta “intelligente” della necessità, capace cioè di capire la necessità del mo­mento se l’Europa vuole avere un futuro, e cioè sicurezza militare, poli­tica estera, integrazione istituzionale, un welfare europeo che incentivi il sentimento di cittadinanza europea. Per tacere di questi bivi ancora aperti davanti alla nostra insolvenza, facciamo un po’ il punto sui bivi che non abbiamo imboccato, e che ormai stanno alle nostre spalle, e hanno potentemente contribuito a portarci nella situazione attuale, una catastrofe che si poteva evitare. Il che, al di là delle “colpe” e degli interessi degli “altri”, che nel mondo reale ci sono sempre insieme agli altri, dovrebbe essere un’ammenda di responsabilità, almeno; quanto meno per non ripetere gli stessi errori.

Il primo bivio è l’aver mancato l’appuntamen­to, dopo la caduta del muro e la dissoluzione dell’URSS, di una conferenza (la “nuova” Hel­sinki che oggi si invoca, e purtroppo solo da parte dei più avveduti) sugli assetti a venire e a costituirsi della sicurezza europea. Necessità che era inderogabile, e invece si è pensato di esentarsene con una conferenza stampa “ai massimi livelli” (Gorbaciov e Bush il 31 lu­glio 1991 a Mosca, dove peraltro l’Europa non c’era trattandosi della conclusione di un “bilaterale” USA-URSS, come di fatto oggi quan­to alla sostanza dello scontro sul terreno a Kiev) di rassicurazione ai popoli europei e una rete disorganica, e disattesa, di accordi; evitan­dosi – tra sciatteria di visione politica di chi doveva guidare la nuova Europa che stava nascendo dai fatti, e malizia o malafede geopoli­tica, da tutte le parti – l’urgenza del “compromesso”, nel senso alto del termine come capacità del “potere” di venire incontro ai bisogni del “popolo”. Urgenza tanto più inderogabile perché qui c’erano “i popoli” d’Europa da dover rassicurare, e non solo il “proprio” po­polo; e “il potere” erano poteri contrapposti e interessi contrastanti. E perché nel lessico sostanziale di un’azione politica sostenibile in un mondo globalizzato e nuclearizzato, sotto la necessaria scorza dei processi politici con le loro durezze e le loro arti che si apprendono e che fanno il “politico”, mai si dovrebbe dimenticare la necessità dell’umano, dell’altro come un bene in sé; e per Realpolitik, se non per buonismo, fosse solo per evitarselo come “nemico” della guerra. Mancando questo bivio, le leadership europee sono venute meno al lessico che – dopo due guerre mondiali – i padri fondatori della co­struzione europea volevano far circolare in Europa: nella delega poli­tica a governare e nella lotta per conquistarla, tanto più in un teatro già conflittuale di popoli, un lessico relazionale, fiduciario, un lessico di affidamento umano, che chiede di essere onorato da ogni politica degna di questo nome, sia domestica che sia aliena dal bellum civile che, negli scenari dopo Hiroshima e Nagasaki, internazionale. Anche con i giusti compromessi tra interessi rappresentati diversi, che sono – come ricordava Ratzinger in un famoso discorso del 1981 ai depu­tati cattolici del Parlamento tedesco nella Chiesa di San Winfried a Bonn – l’arte della politica come capacità di mediazione politica de­gli interessi legittimi cui ci si impegna coram populo, popolo davanti a cui si promette insieme – ci si com-promette (cum-promissio) nella parola data – l’impegno al bene comune.

E qui il compromesso era niente di meno di quel che doveva essere: garantire l’integrazione europea nella UE all’Europa già del Patto di Varsavia, senza eludere le necessità di sicurezza del paese che di quel patto era stato sostanza e leadership politico-militare, la Russia. Non fingendo di non capire che quello russo restava uno spazio imperiale con i suoi interessi e i suoi bisogni con cui fare i conti, nella logica reale che in politica gli spazi imperiali esistono (a cominciare dagli USA), per quanto possano non piacerci, soprattutto quegli degli “al­tri” – e sono espressione di alterità istituzionali, culturali, politiche, religiose le cui ragioni “esistenziali” non sono meno autoconsisten­ti delle nostre. L’insolvenza su questo punto “compromissorio” ha portato all’inconsulto anacronismo (che però ha abbondanti esempi coevi e pregressi) di un imperialismo aggressore da un lato, cui si rin­facciano anche giustamente nostalgie neo-zariste da “mondo russo” fuori della storia, ma anche all’emergere – a voler essere onesti – nei paesi dell’Est europeo di nazionalismi anch’essi fuori tempo massimo per i bisogni di uno spazio europeo da condividere, e spesso incoe­renti con i “valori” della Carta europea, cui aderiscono su molti ter­reni solo ancora sulla carta (vedi la larga fattispecie delle “infrazioni”, talune al limite del punto di rottura con Bruxelles).

Si fosse affrontato questo bivio, imboccando la strada di una nuova conferenza di Helsinki, questa sarebbe stata probabilmente una con­ferenza di pace “preventiva” visto quel che è successo nei Balcani, poi in Crimea e in Donbass, e oggi in Ucraina. E forse si sarebbe aperto un sentiero, in un ambiente “grande-europeo” in cui circolasse più fiducia reciproca, a un’integrazione della stessa Russia nell’Europa. Europa di cui la Russia è parte integrante per storia spirituale da sempre come spazio cristiano-ortodosso (la “terza Roma”) e, nella storia moderna d’Europa, almeno da Pietro il Grande in poi. Con San Pietroburgo e Odessa noi italiani peraltro abbiamo una lunga storia. Ecco, le leadership europee, hanno mancato questo bivio; im­boccare il quale era, come oggi è di tutta evidenza, nel loro interesse per la costruzione della “grande Europa” cui si mira. Sempre che la si voglia fare, e che anche le sue alleanze strategiche siano effettivamen­te intenzionate a prevederne e favorirne la concreta realizzazione.

Dalla Brexit in poi, di questo punto è lecito dubitare. Anche se oggi almeno della coesione militare si vede la “necessità”. È del tutto evi­dente che un’Europa più forte e coesa sul piano dell’integrazione politica economica e militare sarebbe stato un fattore di maggiore deterrenza nei calcoli che hanno portato Putin all’invasione. E in modo più risalente avrebbe consentito agli europei una minore dipendenza (peraltro gestita in proprio da ogni Stato della UE) dalle fonti energetiche russe. Si scopre solo oggi che un’in­tegrazione delle reti elettriche europee avrebbe significato un risparmio energetico superiore al 30% degli attuali consumi dell’UE. Un dato che è già uno scandalo in termini ambientali, e che oggi, se vero, è uno scandalo “politico”, da ascrivere all’insolvenza europea di quelle che dovrebbero essere le sue ambizioni di integrazione e di ruolo sulla scena mondiale. Sia chiaro: di questa insolvenza sono responsabili i vari egoismi nazionali e statali, a cominciare da un’interpretazione miope del suo ruolo di guida della Germania riunificata, più attenta al suo bilancio commerciale che alle ragioni economiche anche degli alleati europei e non europei, ma tra questi egoismi quello britanni­co, motivato anche dal voler mantenere un asse privilegiato con gli USA, è certamente il più colpevole, e fondamentalmente “malizio­so”, da sempre intento a lucrare i vantaggi dell’integrazione europea, fin che è convenuto, con franchigie agli impegni comunitari di vario genere. E trovo francamente offensivo, per gli sforzi di chi oggi cerca se non la pace, almeno la fine della guerra guerreggiata per portarla a un tavolo di trattativa, l’invito fatto tempo fa da Boris Johnson all’Europa, da cui la Gran Bretagna è uscita, di “non stancarsi della guerra”, atteggiandosi a Lord Protettore sul piano militare dei paesi europei, soprattutto baltici e scandinavi, mettendoli in contraddi­zione con i paesi dell’Europa continentale e mediterranea: dopo la Brexit, un altro duro colpo alla possibilità di una più larga e coesa ed effettiva costruzione europea, facendo leva sulla NATO e la sua funzione di alleanza “difensiva”, con elementi di azzardo che non ha censurato il “pacifismo” del papa, ma un interprete realistico ed efficace della “guerra fredda”: Henry Kissinger.

E qui veniamo all’altro bivio che è stato mancato, cui forse si è ancora in tempo a porre riparo: il riallineamento della NATO, della comu­ne difesa atlantica, che nessuno certo può mettere in discussione, al nuovo spazio europeo, all’Europa in movimento – popoli e Stati – che nasceva tra il 1989 e i primi anni Novanta. Il primo punto sarebbe stato un allargamento della NATO a est più ponderato e garantito da un quadro di sicurezza europea concordato tra tutti gli attori in gioco; un allargamento, peraltro, la cui funzione ai fini di una maggiore efficacia della deterrenza nucleare è del tutto opinabile, stante la gittata dei recipro­ci sistemi d’arma per un attacco nucleare strate­gico, per cui non si capisce bene la necessità di far avanzare di qualche centinaio di chilometri sul terreno siti missilistici. Né pare che lo sta­tuto non NATO di Svezia, Finlandia e Austria abbia portato dal 1945 a oggi qualche pregiudi­zio alla loro integrazione di sistema nel mondo occidentale-europeo. Ne consegue, oggi, il disal­lineamento tra la mission che la NATO a guida anglo-americana si sta dando nella crisi ucraina, contenimento strategico della Russia, più che so­stegno alla soluzione migliore possibile realistica per l’Ucraina della tragedia che sta vivendo, e la sostenibilità europea, quanto meno dell’Europa centro-meridionale, di questo approccio.

Perché nella drammatica crisi ucraina, è un dato di fatto l’asimmetria degli interessi tra l’Europa, soprattutto l’Europa occidentale, quella atlantica da sempre (e già questo dovrebbe far riflettere), e gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, dove Johnson si era ritagliato il ruolo di proconsole NATO di riferimento dei paesi dell’Est europeo, già fino al crollo dell’URSS facenti parte del Patto di Varsavia e legittima­mente renitenti all’influenza postsovietica della Russia. Come pure dei paesi scandinavi, Svezia e Finlandia. Con una NATO che sta tornando a essere alleanza atlantica nordeuropea, fedele peraltro al suo acronimo, e non come l’abbiamo vista operare per decenni capa­ce di esprimere gli interessi dell’Europa centro-meridionale partner originario dell’Alleanza. Tanto è vero che l’aspetto più importante e urgente della missione in USA di Draghi, certo non tacciabile di dubbio atlantismo, è stato quello di rappresentare il disagio dell’Eu­ropa storica continentale e mediterranea all’estensione della finali­tà del sostegno militare, economico, politico alla resistenza ucraina all’invasione russa (il condiviso da tutti raggiungimento di una ces­sazione delle ostilità sul terreno e di una pace il più possibile vicina agli interessi di Kiev) in direzione di un confronto con la Russia proiettato su orizzonti di scontro geopolitico di potenze di medio e lungo periodo. E di proporsi anche come garante che questa diffe­renziazione di interessi non si divarichi ulteriormente mettendo in crisi il dialogo atlantico – che ha due sponde, ricordiamolo sempre con dignità – e la stessa già malcerta tenuta unitaria dell’Europa fatta equivalente all’UE.

Ma al di là di questa asimmetria di interessi, davvero il movente angloamericano di “contenimento” dell’imperialismo russo ai fini di “declassamento” del paese a “potenza regionale” (prospettiva che, è del tutto evidente, è fuori dell’acquiescenza della Russia, Putin o non Putin), conviene davvero al sistema di relazioni internazionali, ancorché in crisi, uscito dagli accordi di Yalta e che ha visto, nei decenni successivi, l’imporsi di altre potenze nel club dei paesi con armi nucleari e un sovvertimento dei pesi economici nel mondo, a cominciare dal ruolo assunto dalla Cina?

Se non lo si cambia, il Consiglio di sicurezza dell’ONU è un’assicu­razione internazionale degli equilibri cui accenno, se con potere di veto vi siedono USA, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina. È del tutto evidente che questo potere di veto sancisce l’ambizione di alcu­ni paesi a un ruolo globale; dalla Gran Bretagna e dalla Francia eser­citato aggregate agli USA con la NATO. Conviene sovvertire questo status quo? E conviene che dal club esca la Russia? Alla Russia, mon­sieur Lapalisse insegna, certamente no. Anche se proprio l’avventura di Putin in Ucraina, con quel che rischia di seguirne, può diventare un fattore di declassamento a potenza regionale della Russia. E que­sto è un errore storico che gli sarà imputato, se le cose andassero in questa direzione. Ma conviene a noi occidentali, e soprattutto a noi europei? Conviene agli USA spingere la Russia in posizione grega­ria della Cina? Sarà davvero conveniente al mondo globale, davvero stabilizzante, una diarchia tipo quella USA-URSS delocalizzata sul fronte del Pacifico? E che ne verrebbe a noi europei? Trent’anni di nuova guerra fredda sul suolo europeo, se andasse bene, cioè se restas­se fredda, spingendo la Russia al di là degli Urali e allontanandone l’integrazione nel mondo occidentale europeo? E questo in nome dei valori occidentali? Ma cosa sono i valori occidentali se non l’evolu­zione liberaldemocratica dei valori cristiani che condividiamo con il “mondo russo”? Non dovremmo coinvolgere il mondo russo, con la pazienza che ci vuole, in questa evoluzione europea occidentale dei valori cristiani, ai limiti dell’utopia di uno spazio geopolitico cristiano dall’America alla Siberia in cooperazione e non in conflitto con gli altri grandi spazi di civilizzazione, confuciano, induista, islamico? È utopia o in un mondo globale, armato come è armato, non possiamo permetterci meno di questo? Cioè costruire pon­ti, e non muri o scavare fossati (copyright France­sco)? Fatta la pace che manca tra Russia e Ucrai­na, noi dobbiamo costruire un futuro a questa pace; anche tra questi due grandi paesi “cristia­ni”; e qui l’Europa, e anche la “piccola” Italia, possono e devono svolgere un grande ruolo.

E anche il mantra della nostra non dipendenza dai nostri vicini, è meglio che sia ragionato, se non silenziato! Ricordo che il diritto internazio­nale è nato nei porti, nei commerci, nelle dipen­denze reciproche. A chi servono paesi autarchici, sì da avere meno remore a fare la guerra? La dipendenza reciproca onesta è meglio di ogni pericolosa illusione di autarchia nel mon­do globale. L’unica indipendenza che tutti dobbiamo guadagnare, e penso alle fonti energetiche, è l’indipendenza dall’usura della Terra, dall’usura della casa comune. Non dovremmo noi europei avere la forza di proporci non solo al vicino russo (e in fondo a noi stessi, nelle pericolose incrinature delle nostre democrazie), ma al mondo della globalizzazione, come quello che siamo stati, come la più gran­de piattaforma di diritti e di dignità umana che si sia vista nella sto­ria della civilizzazione, e non ridurci a un impoverimento di questa vocazione al mercato e al suo dominio senza la sostantività dei diritti dell’individuo che la libertà di iniziativa economica voleva garantire come strumento e non come fine in sé? Cioè tornare al fondamento liberale (e liberante l’umano) dello stesso liberismo economico?

Come si vede, più domande che risposte. Ma possiamo evitare di porcele, quando a ridosso del dramma in Ucraina, si sostiene auto­revolmente che dobbiamo acconciarci al traino senza se e senza ma della «sola potenza mondiale – gli USA – che si è opposta prima, per mezzo secolo, alla minaccia del comunismo sovietico che altrimenti ci avrebbe facilmente portato nella sua sfera d’influenza; ed è l’unica che oggi contrasta la trasformazione del mondo in una catena com­merciale sottomessa ai desiderata di Pechino» (Ernesto Galli della Loggia)? Un punto di vista che ci aiuta a capire con disinvolta fran­chezza i valori occidentali che al di là dell’Ucraina saremmo chiamati a difendere: impedire la trasformazione del mondo in una catena commerciale sottomessa ai desiderata di Pechino.

In argomento, mi permetto qualche perplessità discorsiva. In sostan­za gli USA (e l’Occidente al seguito), che hanno inventato i Pall Mall, il supermercato che ha vinto la guerra fredda, insieme alla corsa agli armamenti nucleari, e Amazon e l’internet dei Big Data che è il “Postalmarket” digitale globale, sarebbero i garanti di un mondo non ridotto a “catena commerciale”. Tanto più se poi il prossimo ammi­nistratore delegato potrebbe essere Pechino. Una tesi che piuttosto che esprimere la positività dei valori occidentali di dignità, libertà, democrazia, ci pare esprima piuttosto la frustrazione occidentale per il cambio dei pesi nel consiglio di amministrazione del supermercato globale cui è destinato a essere il mondo. E impoverisce e delegittima le stesse ragioni ideali e interessi nazionali dell’eroica resistenza in Ucraina. E il nostro sostegno a queste ragioni e a questi interessi.

In sostanza si viene a dire – e questo la dice lunga sull’esame di co­scienza che devono fare gli stessi valori occidentali per tornare accetti e credibili al mondo globale – che il mercato globale, con buona pace dei padri nobili del liberalismo, non può essere un mercato perfetto, non corretto dalla mano pubblica; in questo caso la mano militare. Siamo ancora, come si vede, alle cannoniere a sostegno dell’impe­rialismo liberale. Niente di nuovo sotto il sole, perché è noto fin dai commerci fenici che il mercante era anche uomo d’armi. E non è un argomento particolarmente forte la presenza di imperialismi auto­ritari, non liberali, magari, o forse certamente, peggiori dei nostri. Perché presa questa china, quando la guerra è la politica economica globale condotta con altri mezzi, il fixing dei prezzi e dei valori azio­nari dei concorrenti sul mercato alle strette lo decide non la libera concorrenza “pacifica” ma il confronto sul terreno, che insanguina ulteriormente la guerra ibrida già condotta di per sé dalla logica au­tonoma dei mercati; a sprazzi e bocconi debolmente temperata da organi internazionali “caritativi” o di ispirazione istituzionale, ad esempio la FAO, o di ispirazione privata, le fondazioni dei vari ma­gnati. Chi ha lo sguardo lungo della storia, ci vede all’opera il medioevo tecnologico già profe­tizzato da oltre mezzo secolo.

Ora il punto è se vogliamo rassegnarci alla guerra come geopolitica economica e finanziaria con­dotta con altri mezzi, con buona pace dei “valo­ri” fondativi quanto meno dell’Europa cristiana nella sua versione migliore, oppure, in presenza di attori nucleari in questo scenario, la guerra no, la guerra non è più ipotizzabile come solu­zione per frenare o spingere a vantaggio degli uni o degli altri le dinamiche della globalizzazione. E che dobbiamo inventarci qualcosa di nuovo se non vogliamo avere davanti un secolo di guerre a definire chi deve guidarla la globalizzazione. Ma­gari una convivenza multilaterale degli interessi, lasciando in pace il suprematismo dei valori occidentali, che forse è il modo migliore di mostrarne al mondo il carisma attrattivo per la fraternità necessaria di cui abbiamo bisogno sulla nostra unica terra.