Forza Italia e la politica secondo Berlusconi

Di Mariastella Gelmini Giovedì 21 Settembre 2023 09:19 Stampa
Forza Italia e la politica secondo Berlusconi Illustrazione di Emanuele Ragnisco

 

Il giudizio sulla complessa figura di Silvio Berlusconi andrebbe affidato agli storici. Non sarà tuttavia impresa semplice: il presidente di Forza Italia ha esercitato fino alla fine un ruolo politico di assoluto rilievo e continuerà a scatenare, seppure in tono minore, le opposte tifoserie. Ciò allontana purtroppo – come hanno dimostrato le assurde e ingiustificate polemiche sui funerali di Stato – la condivisione di un’opinione più serena e obiettiva sul Berlusconi politico e uomo di Stato.
Anche i più accaniti detrattori dovrebbero oramai riconoscere che il ventennio berlusconiano non lascia – come troppo spesso è stato detto – ferite o danni all’assetto istituzionale e al paese. Berlusconi non è stato un usurpatore della democrazia ma un interprete della modernità e un precursore della nuova era della comunicazione politica. L’Italia è una democrazia matura che, proprio grazie alla sua discesa in campo, ha sperimentato l’alternanza di governo, ponendo fine al consociativismo della prima Repubblica. Berlusconi, nel 1994, ha simultaneamente e imprevedibilmente recuperato il “secessionismo” leghista nel circuito istituzionale e ha contribuito in modo decisivo all’emancipazione della destra italiana dalla sua storia, con ciò costituendo un’alleanza inedita e vincente: il centrodestra italiano. Senza questo passaggio “storico” sarebbe stato impensabile per una donna di destra come Giorgia Meloni giungere a Palazzo Chigi nel 2022.
L’inserimento di Lega e Alleanza Nazionale nel circuito di governo può considerarsi un demerito solo in una logica di parte: quella di chi ha subito cocenti sconfitte elettorali e ha avuto la costante esigenza di assegnare le responsabilità di tali insuccessi all’anomalia del fattore B. piuttosto che alle proprie contraddizioni. La costruzione del centrodestra è stato il capolavoro politico di Silvio Berlusconi ed è stato anche un bene per il paese, che solo anni dopo ha potuto comprendere i pericoli determinati dai “vuoti”, sia quando la politica è stata commissariata da una parte della magistratura e da poteri esterni al circuito democratico, sia quando si sono affermate nuove forze dalla robusta impronta populista e antisistema, come il Movimento 5 Stelle.
Svolgo queste considerazioni avendo militato a lungo nelle file di Forza Italia e ricoperto in quel partito e nel paese ruoli di responsabilità anche grazie a Silvio Berlusconi: tuttavia non sono inconsapevole dei limiti – che pure ci sono stati – dell’azione di governo e dell’esercizio della leadership politica di Silvio Berlusconi. Lo sono al punto da aver deciso di abbandonare quel partito e quel leader, poco più di un anno fa. Ciò però non significa non riconoscere adesso la statura di un leader politico che ha segnato così larga parte di storia della cosiddetta seconda Repubblica. Per una parte del paese riconoscere i meriti di Berlusconi è difficile, se non impossibile, anche quando la storia ci ha dimostrato che larga parte delle critiche che gli sono state rivolte erano strumentali e ingiuste.
Berlusconi è stato a lungo accusato di aver creato dal nulla un partito leaderistico e di aver usato spregiudicatamente le sue televisioni per acquisire il consenso necessario a conquistare il potere. A tale accusa (politica) si è aggiunta perfino quella fanta-giudiziaria (mai provata in almeno un decennio di indagini) di aver utilizzato perfino la mafia per ottenere i suoi scopi. Ma la discesa in campo di Berlusconi del 1994 fa seguito a una serie di eventi che hanno rappresentato uno spartiacque per la storia e hanno allo stesso tempo creato le condizioni e lo spazio per un nuovo soggetto politico.
Con la caduta del muro di Berlino del 1989 non era iniziata soltanto la dissoluzione dell’Unione Sovietica ma anche quella della prima Repubblica. I due più grandi partiti italiani, la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano, pur ancora egemoni, erano nel pieno di una crisi che si trascinava da anni. Sul sistema dei partiti si era poi abbattuta, negli anni 1992-93, la stagione di Tangentopoli: uno tsunami di proporzioni mai viste cui seguirono anche spinte di cambiamento dell’assetto istituzionale. Dai referendum per la preferenza unica e il maggioritario, alla legge per l’elezione diretta dei sindaci, fino ad arrivare al Mattarellum, la legge elettorale semi-maggioritaria che ha segnato la nascita della cosiddetta seconda Repubblica. Tutto ciò accadeva in un paese in cui si stava affermando quello che Giovanni Sartori, a fine anni Novanta, definì l’homo videns, per l’impatto sociale, culturale e politico della televisione.
Tutte le premesse per l’affermazione anche in Italia di una politica improntata sulla leadership si sono concretizzate in quel periodo e non le ha create Silvio Berlusconi. Che, sia detto per inciso, non è stato certo il primo leader carismatico ad essersi creato un partito o ad aver plasmato, con il carisma personale, il proprio. Chi sostiene che Berlusconi abbia “inventato” la personalizzazione della politica, dimentica che forti tratti leaderistici c’erano già da anni nella politica italiana (da Craxi ad Almirante, da Berlinguer a Bossi).
La TV ebbe certamente un ruolo determinante nel rilanciare ed esaltare la personalizzazione della politica e Berlusconi, da imprenditore televisivo, ha certamente avuto un vantaggio competitivo nel comprendere e utilizzare i meccanismi della comunicazione ed è stato da questo punto di vista un precursore. I partiti tradizionali erano in crisi: perso il contatto con la propria base e i propri elettori, assediati dalle indagini di Mani pulite, si erano rinchiusi nel palazzo per cercare di resistere alla tempesta incombente. Berlusconi, nel momento in cui fonda Forza Italia, riempie un vuoto politico enorme. Quel partito che lui crea intercetta una domanda che c’è nel paese. Perché fino a pochi anni prima di quel fatidico 1994, 22 milioni di italiani non votavano per la sinistra, ma per il pentapartito. Trascurare questo fatto, immaginare che gli elettori siano stati “creati” in provetta o in uno studio televisivo, “ammaliati” dalla potenza mediatica di Berlusconi è stato – per la sinistra – un errore tragico.
Le critiche a Berlusconi naturalmente riguardano anche la natura del partito che ha fondato. Si è detto che Berlusconi “si è fatto un partito”. E questo è certamente vero. Non è stato però né il primo né l’ultimo e Forza Italia non è stato solo un “partito personale”. Forza Italia è stata creata a immagine e somiglianza di Berlusconi, ma la sua resilienza nel tempo è la prova che ha rappresentato uno spaccato molto ampio di società e, per un lungo periodo, un nuovo modello di partecipazione politica. Dopo Berlusconi molti altri si sono cimentati nell’impresa: non è stato forse un partito personale l’Italia dei Valori, costruito da Antonio Di Pietro? E che dire di Scelta Civica, il partito fondato da un autorevole ex premier come Mario Monti? Lo stesso Movimento 5 Stelle non è stato creato da Beppe Grillo? Berlusconi ha forse anticipato i tempi ma oggi possiamo dire con certezza che la personalizzazione è un tratto caratterizzante della politica contemporanea, tanto che neanche il Partito Democratico ne è stato immune.
Forza Italia uscì molto presto dalla fase nascente, una fase in cui Berlusconi si avvalse della rete dei suoi uomini d’azienda, avviando un improvvisato reclutamento di personale politico “nuovo”. Fu un periodo relativamente breve, anche se per anni quel partito è stato identificato nel “partito azienda”. Dopo la fine della legislatura 1994- 96 Berlusconi aprì le porte di Forza Italia anche a esponenti provenienti dalla prima Repubblica e avviò un reclutamento di qualità imbarcando “i professori” (da Melograni a Pera, da Colletti a Marzano, da Rebuffa a Brunetta, da Mathieu a Vertone). Nel frattempo, in quegli anni alla guida degli “azzurri” venne indicato Claudio Scajola – a tutti gli effetti non un politico nuovo – che diede una forte impronta organizzativa al movimento sui territori.
È a questa Forza Italia che ho aderito. Vengo da una famiglia in cui la politica è stata di casa: mio padre è stato un amministratore locale della Democrazia Cristiana e quando Berlusconi è sceso in campo, fondando un nuovo partito, per molti ex democristiani quella è sembrata la destinazione naturale. Forza Italia è stato un partito “presidenzialista” ma questo non significa che, al suo interno, non ci sia stato un confronto, a volte serrato, fra le sue diverse anime. Berlusconi faceva sintesi, ma tanto sui territori quanto in Parlamento c’era una dialettica vivace. Ad esempio, fra la componente di derivazione cattolica e quella laica, fra i nativi “forzisti” e quelli provenienti dalla prima Repubblica e quindi guardati con sospetto dagli altri. Non è stato un partito pienamente democratico, ma è stato un partito che teneva insieme molte cose: dall’idea del partito liberale di massa – che fu quella primigenia di Berlusconi – a quella del partito dei cattolici, a una solida presenza socialista e laica. La scelta di fine anni Novanta di abbracciare il popolarismo e iscriversi al PPE fu decisiva per impedire che un’intera cultura politica rimanesse priva di rappresentanza in una delle più grandi democrazie europee.
Il Berlusconi di governo è stato a tutto tondo un uomo delle istituzioni, che mai ha travalicato i confini del rispetto formale e sostanziale della Costituzione, anche quando ha dovuto subire una aggressione mediatico-giudiziaria senza precedenti. È stato anche un populista, ma il suo è sempre stato un populismo mite, istintivo e sincero, mai venato da odio o intolleranza. Berlusconi voleva essere amato: non si è mai capacitato delle ondate di accuse rancorose che gli sono state rivolte e dell’asprezza del confronto politico. È sempre stato convinto che se avesse potuto parlare, ad uno ad uno, con ogni singolo elettore, lo avrebbe convinto della bontà delle sue ragioni. C’è in tutto ciò se vogliamo una componente di ingenuità narcisistica, ma ciò ha prodotto – ad esempio – il famoso discorso di Onna, primo e insuperato tentativo di vera pacificazione nazionale intorno alla ricorrenza del 25 aprile.
I governi Berlusconi non hanno, è vero, centrato l’obiettivo della “rivoluzione liberale”, tuttavia un’azione riformatrice è stata messa in campo: la legge Biagi, la riforma del lavoro divenuta un modello in tutta Europa, e poi l’alta velocità, la Legge obiettivo, fino al Trattato di Pratica di Mare, un indubitabile successo diplomatico cui purtroppo non sono seguiti gli esiti sperati. Vale la pena di ricordare che quei governi hanno anche ottenuto notevoli risultati contro le mafie: dall’arresto nel 2006 di Provenzano, alla stabilizzazione del 41 bis, al rafforzamento delle norme per colpire i patrimoni della criminalità. Tutti elementi che fecero affermare a Pietro Grasso nel 2012 che «il governo Berlusconi avrebbe meritato un premio per la lotta alla mafia».
L’azione riformatrice fu comunque in parte fiaccata da un lato dal contesto internazionale e dalle reiterate crisi che misero a dura prova il paese (il post 11 settembre nel 2001, la crisi dei subprime e poi dei debiti sovrani) dall’altro dalle resistenze che si creavano nell’establishment e che trovarono più di una sponda nei partiti alleati e dallo sfibrante assedio delle inchieste e degli scandali. Ciò in parte fece sì che Berlusconi si concentrasse con ben maggiore soddisfazione per lui in quella che era diventata la sua vera passione: la politica estera. I successi conseguiti in questo ambito (da Pratica di Mare al discorso al Congresso USA), non hanno impedito che intorno a Forza Italia e a Berlusconi si coalizzassero, nel paese e all’estero, avversari e nemici, pronti a cavalcare da un lato l’indebolimento nei consensi elettorali, dall’altro il logoramento determinato dalle inchieste.
La fine del PdL e poi il fallimento del patto del Nazareno, la rottura con Alfano, hanno trasformato la vecchia Forza Italia in qualcosa di molto più autoreferenziale. Molti dirigenti politici di esperienza o vengono messi da parte o se ne vanno. Nelle elezioni politiche del 2018 Forza Italia cessa di essere il primo partito del centro-destra. La Lega di Salvini la sopravanza di circa un milione di voti, mentre il Movimento 5 Stelle diventa il primo partito italiano. Alle Europee del 2019 la Lega ottiene il 34% dei consensi; Forza Italia scende sotto il 10%.
Questi fatti hanno accelerato la trasformazione di Forza Italia. Intorno al tavolo di via del Plebiscito si riunisce un gruppo di dirigenti politici sempre più ristretto, che sceglie di appiattirsi sulle posizioni della Lega. Questo fenomeno, con la caduta del governo Conte I e il ritorno di Salvini sui banchi dell’opposizione, si è ulteriormente amplificato. In quel periodo si ipotizzano perfino gruppi parlamentari unici e una federazione con la Lega, che però nel frattempo sta iniziando a calare nei sondaggi. Una situazione che mette sempre più a disagio chi, come me, credeva di far parte ancora di un partito liberale, moderato e convintamente europeista. Disagio che aumenterà poi con le esternazioni di Berlusconi a difesa di Putin. Forza Italia aveva aderito al governo Draghi con moderata convinzione e quando si sono create le condizioni per la rottura, ha seguito pedissequamente la Lega. Un atto che per me, ma anche per molti altri, ha rappresentato la conferma della mutazione genetica di quel movimento e la sua abdicazione a una nuova coalizione dai forti tratti sovranisti, antieuropeisti e talvolta perfino antiscientisti.
Non è però in quest’ultima fase – oggettivamente poco luminosa – che va ricercato il lascito politico di Berlusconi. L’impossibilità dell’esistenza dell’erede è stata certificata dalla apprezzabile scelta della dirigenza di lasciare “vacante” il ruolo di presidente di Forza Italia. E se è vero che la rivoluzione liberale non è stata portata a compimento, è pur vero che molti temi “imposti” da Berlusconi nell’agenda politica del paese sono ancora vivi tanto nei programmi politici di molte forze (e non solo del centrodestra) quanto nel comune sentire del paese. La centralità dell’individuo e la difesa della sua incoercibile libertà anche rispetto all’invasività dello Stato, la valorizzazione e tutela dell’imprenditorialità, la battaglia per un fisco più equo, l’esigenza

di una giustizia libera da condizionamenti politici e di giudici terzi, la necessità di istituzioni più snelle ed efficienti, l’idea liberale temperata dai principi dell’economia sociale di mercato attinti dal popolarismo, l’impegno per l’ammodernamento infrastrutturale del paese (dall’alta velocità al ponte sullo Stretto) con l’intuizione della legge obiettivo, i cui principi sono ancora alla base di ogni tentativo di accelerazione delle opere pubbliche. Sono solo alcuni dei temi del berlusconismo che resteranno a lungo nell’agenda del paese.
Il partito fondato da Berlusconi è intanto chiamato alla sua prova più difficile e solo il tempo ci dirà se la sua attuale classe dirigente sarà in grado di assicurargli una storia all’altezza del suo fondatore: è un travaglio che va guardato con rispetto non fosse altro per i milioni di italiane e italiane che, nel tempo, l’hanno votato.