Il segno di Berlusconi sul sistema politico: non bipolarismo ma assenza della mediazione

Di Michele Prospero Giovedì 21 Settembre 2023 09:19 Stampa
Il segno di Berlusconi sul sistema politico: non bipolarismo ma assenza della mediazione Illustrazione di Emanuele Ragnisco

 

Silvio Berlusconi è, a suo modo, un leader anticipatore che ha esercitato un influsso sistemico non congiunturale. Con le sue gesta di magnate che occupa d’intuito un vuoto politico, egli estrapola, sul cadavere della partitocrazia, le forme di un neopatrimonialismo postmoderno (il partito è una cosa, una proprietà d’azienda). Sul piano politico, Berlusconi non ha inventato però il bipolarismo. Egli ha solo affinato sul campo la tecnica coalizionale a maglie larghe con la quale sarebbe stato più efficace affrontare una competizione con la inedita formula maggioritaria. Un andamento bipolare il sistema politico italiano l’aveva mostrato anche nel tempo della prima Repubblica. Il meccanismo proporzionale non impediva di per sé la polarizzazione tra le forze. La rappresentazione fotografica delle preferenze non conferiva però alcun significato tangibile al mito della elezione diretta del governo con un premier espresso già con il voto dei cittadini.
Berlusconi non ha inaugurato la meccanica bipolare ma ha attaccato al cuore la “mediazione” che assegnava al Parlamento la funzione espressiva dell’indirizzo politico della maggioranza costituitasi in aula con il negoziato tra i partiti. Egli percepì che la nuova formula elettorale assumeva il ruolo di spartiacque anche simbolico nella vicenda repubblicana. Non ci sarebbe stato del resto il fenomeno Berlusconi senza la valenza evocativa delle prime elezioni con una nuova legge a prevalenza maggioritaria. In presenza di un congegno proporzionale, quelle del 1994 sarebbero state delle semplici elezioni di mantenimento con i residui di partito in grado di gestire gli effetti degli spostamenti d’opinione.
Anche ipotizzando per le coalizioni di destra allestite dal Cavaliere la stessa quantità di sostegno elettorale effettivamente raggiunta nel 1994, con la funzione di filtro svolta dal meccanismo proporzionale in Parlamento la casa della libertà non avrebbe avuto i numeri per governare. Una aggregazione di sinistra e centro avrebbe in maniera plausibile avuto in mano le carte per gestire la fase politica post Tangentopoli. Il maggioritario, adottato sotto la dettatura referendaria, contribuì invece a rendere il passaggio del 1994 una vera cesura storica. Il voto si configurava come un evento che accompagnava elezioni discontinue destinate a spalancare un forte impatto di sistema. Berlusconi comprese meglio degli avversari, sedotti dall’ideologia del maggioritario e però non molto agili nel controllo razionale del suo prevedibile impatto pragmatico, il risvolto dissolvente di elezioni senza mediazioni. E allestì per questo evento discontinuo una coalizione assai eterogenea che traduceva in termini operativi il mito referendario della democrazia immediata. In un bipolarismo senza gli attori della mediazione, lo scontro si consumava per intero sul terreno elettorale. Tutta la strategia berlusconiana giocava sull’effetto di semplificazione connesso a una competizione maggioritaria che obbligava i votanti a una scelta secca tra un di qua e un di là. L’aggregazione meccanica, che procedeva con patti distinti siglati con Fini e Bossi, fu la traduzione di una efficace polarizzazione costruita grazie ai media anche come segmentazione tracciata nel corpo elettorale.
Se, in termini di risultati elettorali reali, il sistema del 1994 appariva dislocato attorno a tre dimensioni significative, con l’effetto premiante del maggioritario il sistema era numericamente divenuto bipolare. Berlusconi vinse con una coalizione ampiamente maggioritaria alla Camera, non al Senato (dove prevalsero, per assicurare la governabilità, le antiche pratiche del trasformismo molecolare che portarono all’assorbimento di Tremonti e di altre singole personalità). Con le sue mosse, Berlusconi comprese il modo più efficace di aggirare la ricaduta fortemente selettiva del congegno maggioritario. Egli vinse grazie ad alchimie coalizionali che non erano presenti in altri sistemi politici europei nei quali è riscontrabile un impianto maggioritario e però i partiti corrono in autonomia.
La conseguenza dell’ingegneria coalizionale berlusconiana è stata la comparsa di un sistema senza più un fattore Kappa alla sua sinistra e privo di un “polo escluso” dai giochi alla sua destra. C’è stato in questo azzeramento delle eredità storiche anche un effetto liberatorio, che ha spalancato uno spazio politico liquido senza più argini predefiniti o delimitazioni di maggioranza sulla base della pretesa lealtà ai fondamenti dell’economia di mercato. Il primo effetto di questo scioglimento degli argini pregiudiziali di carattere ideologico è stato l’ingresso della destra radicale al governo, per la prima volta in una democrazia occidentale. I postfascisti sono entrati al governo persino prima dei postcomunisti che si erano fermati alle soglie della accettazione nella semplice maggioranza a sostegno dell’esecutivo a guida DC. In questa legittimazione della destra radicale come abituale forza di governo, il sistema politico italiano ha fatto da battistrada a un fenomeno di connubio tra centro moderato e movimenti nostalgici che oggi trionfa in tutta la vecchia Europa.
Nel funzionamento reale del sistema politico, all’effetto aggregante, ogni volta sprigionato dalla coalizione massima vincente per includere tutti i possibili partner, presto si aggiunse l’impulso disaggregante, determinato dalle dinamiche centrifughe nate entro maggioranze incapaci di raggiungere una qualche stabilizzazione dopo il trionfo elettorale. Il riferimento a interessi sociali eterogenei, se viene agevolmente oltrepassato grazie alla magia della comunicazione che unifica ogni differenza nella persona del leader, è destinato a infrangersi al cospetto di politiche pubbliche selettive che non riescono ad accontentare tutti nella soddisfazione di domande particolaristiche. Sul piano del modello competitivo, con Berlusconi il sistema ha perduto la tradizionale andatura centripeda, con le sue delimitazioni ed esclusioni rivolte ai poli estremi, per assorbire una traiettoria centrifuga, con l’assorbimento di tutto lo spettro delle culture politiche nell’alveo del governo. Chiunque conquisti rappresentanza è ritenuto con ciò stesso legittimato a entrare in compagini ministeriali.
Nel bipolarismo centrifugo non esistono più sentinelle sistemiche abilitate a conferire capacità di governo sulla base di una nozione preventiva di legittimazione e per vincere è indispensabile attrarre entro una offerta coalizionale anche forze poco compatibili con il profilo della coerenza programmatica e con il senso del limite nel confronto infra-governativo. Le alternanze che si sono regolarmente prodotte nella guida degli esecutivi (peraltro mai nessuna maggioranza

di governo in carica ha vinto nella tornata successiva), hanno combinato di solito l’affermazione alle urne con una preliminare arte di scomposizione della coalizione al potere. Il successo della sinistra nel 1996 è stato l’indicatore esemplare dell’efficacia di questa duplice preoccupazione strategica: disarticolare il campo nemico, ridurre cioè l’ampiezza coalizionale del blocco dell’avversario, e attrezzare un polo alternativo di centrosinistra in grado di coprire uno spazio politico più ampio di quello rivale. Il trionfo di Berlusconi del 2008 ricalcava il medesimo impianto, agevolato però dalla tattica autodistruttiva della “vocazione maggioritaria” con la quale il PD deponeva in anticipo le armi dell’agire coalizionale e si affidava al collante del voto utile per semplificare la struttura del sistema politico.
Nell’arco di tempo che va dal 1994 al 2013, il sistema politico, ruotante per vent’anni sulla figura catalizzatrice di Berlusconi, si caratterizza per un ricambio regolare al governo (il test del doppio ricambio assunto da Huntington quale indicatore del grado di legittimazione sistemica dinanzi all’alternanza delle funzioni) e anche per una piuttosto irregolare incapacità di ogni maggioranza occasionale di essere confermata al potere per almeno due legislature. Oltre alle dinamiche erosive interne alle varie maggioranze (1994, 2007), nel 2011 si è presentato un fenomeno nuovo nella sua intensità, che poi comparirà come cruciale anche nelle dinamiche del 2020: l’intervento politico attivo del Quirinale come referente riconosciuto da forze internazionali, non solo europee e garante della riproduzione regolare degli equilibri militari-finanziari. Al di sopra del sistema politico nazionale e dei suoi attori, affiora una sorta di metapartito euroatlantico che esercita un qualche potere di sorveglianza e condizionamento monitorando non solo le politiche economiche e militari ma anche le personalità ritenute legittimate a implementarle nel quadro di specifiche aspettative.
Nelle politiche di rientro dal debito, richieste per il soddisfacimento del vincolo esterno, insorgevano momenti di criticità e, al cospetto delle difficoltà palesate dai governi, nel rispettare impegni improntati al rigore con scelte selettive che avrebbero comportato una celere contrazione di consenso, i garanti della affidabilità del sistema-paese diventavano i presidenti della Repubblica. Con il ricorso a governi tecnici (la variante italiana della Grande coalizione, senza i costi politici di espliciti accordi programmatici tra forze rivali), l’onere delle politiche restrittive veniva fatto ricadere sulle agenzie neutrali o non maggioritarie con la speranza illusoria di tenere i partiti al riparo dai contraccolpi del rigetto popolare. La via della spoliticizzazione, cercata con i governi a guida tecnica, non ha garantito la salvezza ai partiti di governo (la maggioranza parlamentare è necessaria anche per il sostegno a esecutivi tecnici o del presidente). Non è casuale che, a tre esecutivi tecnici, siano seguite nelle elezioni tre ondate di antipolitica, la prima con l’avvento di Berlusconi, la seconda con l’emersione di Grillo, la terza con il trionfo di Meloni.
Dopo la spoliticizzazione cercata per mano della guida tecnica che trascende il bipolarismo, avanzano candidature irregolari di leadership che si proclamano ostili al sistema da abbattere in nome del nuovo, dell’azzeramento delle condizioni vigenti. Nel trentennio 1993- 2023 il sistema politico ha conosciuto ricambi normali di ceto di governo (pendolo destra-sinistra) accanto a cesure di carattere qualitativo (1994, 2013-18, 2022) che evocano non tanto una fisiologica alternanza ma una discontinuità di sistema, una metamorfosi di regime. Non è arduo scorgere nell’esperienza italiana maturata negli anni Novanta la prima grande crisi della democrazia, poi esportata ovunque con la commistione di poteri non più differenziati. I suoi ingredienti essenziali sono la banalità dell’alternanza entro democrazie solo elettorali di investitura, la contrazione degli spazi di solidi poteri separati (invadenza della magistratura con ricadute nella funzionalità della decisione politica); la restrizione dell’autonomia della politica rispetto alle potenze dell’economia.
La forma del partito personale-aziendale inventato da Berlusconi esprime la de-formazione del modello democratico. Con il recupero di varianti postmoderne di patrimonialismo nella gestione del potere, proietta la Repubblica oltre il tempo storico del compromesso espansivo tra democrazia e capitalismo garantito dal partito di massa come garante dell’autonomia della politica. Il potere berlusconiano (non molto diversa su aspetti cruciali è l’esperienza americana sotto Trump) mostra che le redini della decisione, cadute in mano a un magnate che possiede privatamente il bene partito, non coincidono con un governo consapevole delle esigenze medie del capitale. Non a caso gli obiettivi di sistema del capitale, e quindi le politiche di ristrutturazione del modello capitalistico che si rendono necessarie dopo la stagnazione indotta dall’eclisse dell’economia mista soppiantata dal microcapitalismo dei territori, sono stati ogni volta affidati a governi tecnici perché il potere dell’imprenditore di Arcore curava scopi aziendali. Il cosiddetto “conflitto di interessi” indicava nel profondo una commistione azienda-Stato e non sprigionava lo sviluppo di una autentica capacità di egemonia del capitale, che essendo privo di efficaci proiezioni politiche collettive diventava cantore della tecnica, della competenza e censore di ogni dialetto eccentrico derubricato a populismo.
Berlusconi, con il lessico e l’immaginario di un populismo inteso come movimento che si sviluppa dall’alto, in un tentativo di rivoluzione passiva, è l’interprete di un bipolarismo asistemico, e anche invertebrato per la carenza di mediazioni o organizzazioni che trattengono, orientano. Alla antica democrazia bloccata per assenza di alternanza, e però con una spiccata capacità di conservazione delle forze elettorali acquisite nel tempo, subentra una dinamica di regolare alternanza che marcia nondimeno con una incontenibile volatilità elettorale che impedisce ai nuovi attori di progettare ogni allineamento sistemico. A spezzare il bipolarismo meccanico, che pretendeva di puntellare i confini della competizione con leggi elettorali che garantivano il vincitore certo attraverso l’assegnazione di abnormi premi di maggioranza, sarà nel 2013 un movimento di rivolta che si origina dal basso, e impone alle urne un formato tripolare al sistema politico.
La destra è stata più abile nel riaggregare, dopo le elezioni di disallineamento bipolare celebrate nel 2013 e 2018, uno schieramento composito che, nel declino della capacità egemonica di Berlusconi, ha comunque conservato una proposta condivisa per la contendibilità del potere. Compare così un tripolarismo asimmetrico, con la vocazione maggioritaria coltivata da una parte sola, con la destra che ricompone una coalizione a tre teste, con l’egemonia del campo che una volta è appannaggio della Lega e un’altra della destra radicale. Negli altri ambiti dell’offerta politica il quadro appare destrutturato a evidente vantaggio competitivo della destra. Nel voto del 2022 decisiva è risultata la frantumazione come effetto della rinuncia preventiva-punitiva del PD a stipulare intese con un M5S, che è dimagrito rispetto all’originario contenitore di ogni microfisica delle proteste per assumere una fisionomia più marcatamente progressista con la rinuncia al profilo di forza sfuggente che si proietta oltre la coppia destra e sinistra. Un bipolarismo in cerca di attori è quello che rimane dopo la parabola del berlusconismo che consegna comunque alla destra un plusvalore di campo solitario che aggrega forze eterogenee e si sbarazza agevolmente di avversari che rinunciano a qualsiasi coalizione evocata da una legge elettorale lasciata immutata.