Tecnologia e diseguaglianza: una visione progressista dell’intelligenza artificiale

Di Diego Ciulli Martedì 14 Luglio 2020 11:31 Stampa
Tecnologia e diseguaglianza: una visione progressista dell’intelligenza artificiale ©iStockphoto.com/Oliver Kufner

La Saccheria Franceschetti di Provaglio d’Iseo è una classica storia di made in Italy: inizia 80 anni fa producendo sacchi da vecchi tessuti, oggi conta una cinquantina di addetti e 20 milioni di fatturato ed è il terzo distributore di imballaggi flessibili in Europa. Ciò che la differenzia dalla gran parte delle PMI italiane è la scelta, decisamen­te precoce, di investire in innovazione. Già nel 2017 ha iniziato ad adottare soluzioni di intelligenza artificiale (IA), in particolare per la gestione del magazzino, e oggi tutto il processo dall’ingresso delle merci fino alla consegna è automatizzato e monitorato, riducendo al minimo il rischio di errori. I sacchi vengono movimentati, catalogati e resi disponibili tramite un ordine di priorità stabilito sfruttando l’analisi predittiva, tenendo in considerazione la loro disposizione nel deposito ma anche le abitudini del cliente. I magazzinieri sono guidati per individuare l’ordine di carico più veloce. Il sistema crea una classificazione dei diversi compratori in base alla loro puntualità e applica loro un prezzo proporzionato alla capacità di rispettare i tempi di ritiro. Anche i processi del back office sono stati demateria­lizzati: prima, la gestione di un ordine richiedeva almeno dieci minu­ti, ora sono sufficienti meno di sessanta secondi. Insomma, l’azienda gestisce ordini e magazzino con la stessa efficienza dei grandi player globali, senza averne le dimensioni o la capacità di investimento.

Il caso di Saccheria Franceschetti mostra due elementi essenziali: il pri­mo è che l’intelligenza artificiale è qualcosa di molto diverso da quello che abbiamo imparato a vedere nei film di fantascienza. Il secondo è che l’IA non è più una prerogativa esclusiva delle grandi imprese.

Quello che chiamiamo intelligenza artificiale è in realtà un ventaglio ampio di tecnologie che hanno l’obiettivo di rendere gli oggetti intel­ligenti. Le attività implementate da Saccheria Franceschetti hanno a che fare con una branca specifica dell’IA, il machine learning, ovvero la scienza di rendere i computer capaci di svolgere alcune funzioni senza essere stati programmati con regole specifiche, ma apprenden­do da alcuni esempi. Per quanto possa sembrare complesso, il ma­chine learning è già ampiamente parte della nostra vita. Ad esempio, è grazie a questa tecnologia che i computer riescono a riconoscere il contenuto di un’immagine o di un video, a comprendere il linguag­gio naturale, o ad analizzare grandi quantità di dati per individuare tendenze difficilmente identificabili.

Queste tecnologie fino a poco tempo fa erano accessibili solo a poche imprese, in grado di affrontare enormi investimenti infrastruttura­li e di ricerca e sviluppo. La combinazione tra diffusione del cloud computing e delle reti a banda larga – fissa e 5G – sta rapidamente rendendo l’utilizzo di tecnologie di machine learning una possibili­tà per qualsiasi impresa, a cui accedere semplicemente attraverso il collegamento a internet: in sostanza, è possibile utilizzare sistemi di riconoscimento di immagini o di analisi dei dati per automatizzare la produzione senza doversi dotare delle potenti infrastrutture di cal­colo necessarie per farle funzionare, e utilizzando algoritmi messi a disposizione da grandi partner tecnologici o addirittura disponibili in open source. Gli impatti sono potenzialmente molto grandi e tra­sversali: l’applicazione di algoritmi di analisi predittiva nel settore della moda potrebbe permettere una riduzione dell’80% del costo del controllo di qualità; il riconoscimento delle immagini in agricol­tura potrebbe ridurre del 90% il tempo di ispezione dei terreni – e gli esempi sono innumerevoli.1

Si tratta di un salto tecnologico che parla – o dovrebbe parlare – molto al sistema economico italiano. La prima fase dell’economia di internet ha avuto a che fare essenzialmente con gli ambiti della co­municazione e della distribuzione. Il ritardo digitale ci ha impedito di sfruttare appieno il potenziale di export online del nostro sistema economico, e il ritardo nell’e-commerce ha fatto perdere terreno al commercio tradizionale, ma la produzione manifatturiera – cuore del dinamismo economico italiano – è stata almeno in parte al riparo da queste dinamiche. La diffusione del machine learning impatterà direttamente sulla produzione. Per l’Italia rischia di essere un appun­tamento decisivo: può essere l’occasione per fare uno scatto, recu­perare gli storici gap di produttività e consolidare il ruolo di grande economia manifatturiera d’Europa, oppure può segnare la definitiva retrocessione a sistema produttivo a basso valore aggiunto, che può competere solo sulla riduzione dei costi – tra cui quello del lavoro – e come subfornitore di una catena manifatturiera con la testa altrove.

NON AUTOMAZIONE E DISEGUAGLIANZA

La trasformazione tecnologica pone il nostro paese di fronte al ri­schio di due differenti tipi di polarizzazione, che in assenza di una strategia esplicita rischiano di autoalimentarsi: una di carattere so­ciale, l’altra di carattere geo-economico – e di collocazione dell’Italia nelle catene globali del valore.

Negli ultimi anni, a fronte di un dibattito amplissimo sui “robot che rubano il lavoro”, i dati economici mostrano esattamente il contra­rio: sono i paesi e le regioni che più hanno investito in innovazione a registrare i tassi di disoccupazione più bassi. Puntare sulle com­petenze delle persone e sull’aumento della produttività aumenta la competitività, e la maggiore competitività attrae nuove attività pro­duttive – che creano lavoro sia nei settori ad alto valore aggiunto, sia in quelli accessori, dalla ristorazione alle pulizie. La diffusione dell’IA con ogni probabilità sarà un amplificatore di questa tendenza: le re­gioni più dinamiche, quelle maggiormente in grado di adottare da subito le nuove tecnologie, tenderanno a concentrare valore aggiunto e posti di lavoro. Il rischio, in sostanza, è la concentrazione nei paesi del Nord Europa dei nuovi lavori creati grazie all’innovazione, con l’Italia intera che perde centralità nella catena del valore e posti di lavoro netti.2

Alla polarizzazione di carattere geo-economico rischia di affiancar­sene un’altra di carattere sociale. Se le stime sulla quantità netta di posti di lavoro creati (o distrutti) a livello aggregato è ancora oggetto di dibattito, pochi sono i dubbi su che tipo di lavori saranno creati, e quali invece tenderanno a scomparire con l’automazione. Le occupa­zioni routinarie e a basso valore aggiunto – si sarebbe detto alienan­ti – sono a maggior rischio di automazione, mentre le competenze digitali, la capacità di essere complementari alle macchine, e soprat­tutto le attività squisitamente umane – l’ascolto attivo, l’empatia, il pensiero critico, il lavoro in gruppo giocano un ruolo insostituibile. Insomma, la diffusione dell’intelligenza artificiale ci impone di uma­nizzare il lavoro.

Le due dinamiche polarizzanti dicono molto del modello di crescita del nostro paese e di come cambiarlo. L’Italia oggi è tra gli ultimi paesi dell’UE per digitalizzazione dell’econo­mia e della società.3 A questo si associa un in­debolimento storico del lavoro, nelle sue tutele e nel sistema della formazione professionale che dovrebbe qualificarlo. Con la crescita dell’im­patto delle tecnologie digitali sul sistema eco­nomico, il rischio concreto è una retrocessione dell’Italia a Mezzogiorno economico d’Europa, con effetti sociali devastanti. Se non saremo in grado di creare qui i posti di lavoro del futuro, rischiamo di essere i più esposti ai rischi di au­tomazione. Insomma, se non saremo in grado di trasformare Saccheria Franceschetti da ec­cezione a regola nel panorama delle PMI ma­nifatturiere, rischiamo che il nostro primato si sposti altrove e che in Italia restino le produzioni a più basso valore aggiunto, quelle che nel breve periodo creano la­voro poco pagato e nel medio sono più soggette ad automazione.

Il nostro paese ha di fronte un’occasione che sa di ultimo appello: noi più di altri non possiamo che accelerare sull’automazione, per tenere – o riportare – la produzione manifatturiera in Italia.

AUTOMAZIONE E DISEGUAGLIANZA

Accelerare la diffusione dell’automazione è probabilmente l’unico modo che abbiamo per creare lavoro e difendere la qualità del la­voro. Ma l’ambizione di muovere verso un futuro caratterizzato da significativi aumenti di produttività ci impone una riflessione attenta su come tenere assieme produttività e uguaglianza. Veniamo infatti da almeno tre-quattro decenni durante i quali si è assistito al divorzio tra crescita della produttività e aumento dei salari. Si tratta di una dinamica ben nota, che porta inevitabilmente a un assottigliamento della quota lavoro sul reddito complessivo prodotto, e conduce quin­di a un aumento delle diseguaglianze. L’impatto sociale di questa di­namica è stato in larga parte mitigato dal fatto che negli ultimi anni la crescita della produttività è stata stagnante ma, come abbiamo visto, la diffusione dell’intelligenza artificiale potrebbe portare au­menti di produttività inediti, che renderanno esplosivo il tema della distribuzione del nuovo valore prodotto.4 È evidente che aumenti di produttività anche di ordini di grandezza più piccoli rispetto alle stime, collocati in un sistema come quello vigente, rischiano di por­tare a una compressione significativa della parte del lavoro e a una esplosione della diseguaglianza. L’innovazione tecnologica impone di ripensare la capacità dei nostri sistemi economici di creare ricchezza diffusa. Accelerare sulla trasformazione tecnologica – e in particolare sulla diffusione dell’automazione – è urgente per far tornare l’Italia a crescere in maniera social­mente sostenibile e per continuare a essere una grande economia manifatturiera. I modi in cui si fa non sono neutri, il governo dell’innovazione è un grande tema di cultura politica. Per anni il dibattito si è focalizzato sul ruolo dell’inter­vento pubblico sulle infrastrutture di rete e sulla PA, ma è sempre più evidente che di fronte a uno Stato che, per quanto debolmente, fa passi avanti in questi ambiti, ci sono due grandi fat­tori di debolezza strutturale: il bassissimo livello di competenze digitali diffuse e l’esiguità degli investimenti delle imprese, in particolare delle PMI. Sono due debolezze che si intersecano e che rallentano l’adozione diffusa di tecnologie trasformative: Sacche­ria Franceschetti è un’eccezione in un panorama di diffusa indiffe­renza,5 per questo è urgente riorientare le politiche verso la qualifi­cazione dei lavoratori con competenze digitali e verso la spinta alle PMI a non temere l’innovazione.

Ma se l’automazione è l’unica via per la crescita, la sfida nel medio periodo è risolvere il presunto trade off tra aumento della produttività e aumento delle diseguaglianze. È un rebus che non ha solo a che fare con la tecnologia e che riguarda il funzionamento complessivo del nostro sistema economico, la rottura dei meccanismi che in Europa avevano garantito la tendenza verso una sostanziale uguaglianza. Ma una lettura originale delle trasformazioni tecnologiche da parte dei progressisti può contribuire al governo del cambiamento.

Anzitutto, il ruolo dell’attore pubblico per promuovere l’innovazio­ne non può limitarsi alle infrastrutture. L’intelligenza artificiale è una tecnologia trasformativa, ma è ancora nelle sue fasi iniziali e le isti­tuzioni possono fare molto per guidarne lo sviluppo, sia sul terreno della ricerca – promuovendo investimenti di lungo termine che il mercato non farebbe, ad esempio creando in Europa un centro di ec­cellenza globale per l’IA –, sia su quello dell’adozione, indicando una traiettoria di sviluppo che mobiliti e orienti gli investimenti privati, identifichi le aree strategiche e promuova partnership con i grandi player globali.

La seconda sfida per i progressisti sta nella capacità degli attori sociali di capire l’innovazione e contrattarne gli effetti. Le tecnologie non hanno effetti predefiniti, e i sistemi automatici – se non guidati – possono finire per cristallizzare le diseguaglianze. Ad esempio, se oggi disegnassimo un sistema di machine learning “obiettivo” per definire salari equi per ciascun lavoratore sulla base dell’analisi di milioni di dati sulle retribuzioni, il sistema con ogni probabilità indicherebbe che le donne devono guadagnare meno degli uomini. Quanto più le decisioni saranno supportate da sistemi automatizzati, tanto più è necessaria trasparenza e capacità degli attori sociali di contrattare gli algoritmi – citando un vecchio slogan del sindacato – e di correggere i bias. Infine, la contrattazione è fondamentale anche rispetto ai be­nefici economici dell’innovazione, per risolvere appunto il trade off tra automazione e diseguaglianza. È necessario disegnare meccanismi che premino chi innova rispetto a chi preferisce la rendita, e che allo stesso tempo aiutino strutturalmente a contrastare la polarizzazione. Un’ipotesi affascinante è quella di definire obiettivi di produttività programmata come benchmark per la crescita dei salari, una sorta di “scala mobile” che faccia da stimolo all’innovazione delle imprese. Infine, in una società che è in grado di produrre di più con meno lavoro, non possono essere un tabù né la riduzione complessiva del tempo di lavoro, né l’introduzione di strumenti che portino verso il superamento del legame tra salario e reddito.

È ormai diffusa, nell’ambito progressista, la convinzione che il nostro sistema economico abbia bisogno di trasformazioni radicali, eppure ancora stenta a decollare – nella definizione delle trasformazioni pos­sibili – una visione progressista dell’innovazione. Per anni ha prevalso la paura, l’attenzione al contrasto dei rischi, rispetto alla capacità di tornare a vedere la tecnologia come un alleato per migliorare la vita alla maggior parte delle persone. Eppure, l’innovazione tecnologica, e in particolare la diffusione dell’intelligenza artificiale, cambierà i nostri sistemi economici nel profondo. Se sarà un cambiamento che porterà benefici per molti non dipende dalla tecnologia, ma dalla capacità di capirla, diffonderla, governarla.


[1] Dati del Politecnico di Milano, disponibili nel Machine Learning Checkup suwww.leconomiadellintelligenza.it.

[2] Per una analisi della ripartizione per microaree geografiche degli impatti occupazio­nali dell’innovazione in Europa si veda MGI, The Future of Work in Europe, giugno 2020 e la mappa interattiva su grow.google/intl/europe/future-of-work-map.

[3] L’indice DESI della Commissione UE 2020 colloca l’Italia al 25° posto nell’UE per livello di digitalizzazione dell’economia e della società, e all’ultimo posto assoluto per competenze digitali.

[4] Accenture stima che la diffusione dell’intelligenza artificiale potrebbe portare ad au­menti della produttività del lavoro nell’ordine del 12% nei prossimi quindici anni in Italia.

[5] L’Istat, nel rapporto sulla competitività dei settori produttivi del 2018, classifica il 63% delle imprese come “indifferenti” alla trasformazione digitale.