In mare si è tutti uguali

Di Pietro Bartolo Lunedì 18 Dicembre 2023 12:46 Stampa
In mare si è tutti uguali ©iStockphoto/cienpies con elaborazione grafica di Emanuele Ragnisco

Il ricordo del naufragio di Lampedusa, nel suo decennale, tiene assieme passato e presente e lo sguardo che mi appartiene: quello di cittadino e medico di Lampedusa impegnato per trent’anni nelle visite dei migranti e oggi europarlamentare nel Gruppo Socialisti e Democratici. Guardare alla migrazione da Lampedusa significa assumere una prospettiva che parte dal mare e dalle sue leggi universali. Sono figlio di pescatore e una delle prime cose che mio padre mi ha insegnato da bambino è stato il rispetto per il mare e per chi in mare rischia la vita. A Lampedusa la legge del mare, quel testo non scritto che distingue gli uomini in naviganti e naufraghi, la conoscono tutti. È una legge naturale che annulla ogni differenza per tutelare il bene primario: la vita delle persone. Chi è in pericolo va salvato. Prima si soccorre e poi gli si chiede chi è e cosa è accaduto. Il suo stato di “naufrago” non riguarda solo lui ma tutti, perché chiunque, prima o poi, può trovarsi nella medesima situazione. In mare si è tutti uguali. Può sembrare una premessa banale, non lo è. Perché se indossi queste lenti e incarni questo valore impari a mettere la vita dinanzi a tutto e a ragionare con una prospettiva che spesso chi guarda da terra non ha. In occasione del decennale del naufragio del 3 ottobre 2013 a largo di Lampedusa ho ripercorso con la memoria quei giorni e le decisioni che ne sono seguite, le scelte del governo italiano, dell’UE e anche quelle che mi hanno riguardato personalmente. Ho rivisto le foto di quella notte e delle ore successive e riaperto il quaderno di appunti che da allora ho iniziato a scrivere per ricordare nomi, storie personali, date.

Vedere centinaia di sacchi cadaverici allineati sulla banchina del molo, aprirli uno per uno per constatare la morte delle persone tra le urla di strazio e sgomento dei sopravvissuti e le lacrime degli amici di una vita, pescatori diventati all’improvviso pescatori di uomini, è qualcosa che ti cambia in profondità. Lampedusa sembrava in quei giorni un girone dantesco. Un luogo di dannati la cui unica colpa era stata quella di nascere nel posto sbagliato, essere figli del Sud del mondo. Vi confesso che ho provato lo stesso sgomento davanti alle fosse comuni scoperte in Ucraina e ai sacchi bianchi che in queste ore mostrano in fila le vittime dei bombardamenti nella Striscia di Gaza. Per noi lampedusani, seppure abituati ad assistere a sbarchi continui, il 3 ottobre ha rappresentato un vero shock: i corpi degli annegati che tornavano a galla sembravano sacchi di plastica galleggianti. Ti avvicinavi e scorgevi uomini, donne, bambini senza vita. Ho contato 368 cadaveri in quei terribili giorni. E quando le immagini dei morti e le riprese subacquee che mostravano i corpi incagliati nel relitto dell’imbarcazione vennero alla luce, ho creduto che qualcosa sarebbe cambiato finalmente e che gli Stati membri dell’Unione europea avrebbero iniziato a guardare alla migrazione come un fenomeno strutturale e non più emergenziale. Mi sbagliavo. La bella intuizione italiana di Mare Nostrum, avviata nel 2014 proprio in risposta a quel naufragio, sarebbe stata archiviata appena un anno dopo.

Fare il deputato europeo, allora, non era nei miei disegni di vita. Nel 2019, quando ho deciso di candidarmi, l’ho fatto proprio perché mi sentivo impotente davanti al ripetersi di tanta sofferenza e violenza. Dall’indomani della strage di Lampedusa avevo iniziato a portare con me la pen drive con le immagini di quanto avevo visto negli anni. Ho mostrato quelle immagini migliaia di volte: prima ai giornalisti, poi agli incontri con le associazioni e nelle scuole. Tutto per provare a mettere un freno alla narrazione tossica che le destre hanno sempre fatto del fenomeno migratorio. Ho scritto dei libri, ho implorato il regista Gianfranco Rosi di non abbandonare il progetto del film “Fuocoammare” per poter parlare a quante più persone possibile e far conoscere quello a cui io e i lampedusani avevamo assistito per molti, troppi anni.

Andare a Bruxelles è stata e continua ad essere una prosecuzione di quell’impegno. Sono convinto che solo la politica può cambiare realmente le regole del gioco. Ma bisogna tornare alla ragione vera del fare politica: l’avanzamento della nostra società, il bene comune. Bisogna tornare a guardare al mondo con gli occhi di Lampedusa, gli occhi del mare.

Qualche giorno fa, durante uno dei tanti incontri che tengo nei fine settimana in tutta Italia e non solo, ho conosciuto una ragazza, una giovane laureata. Mi ha raccontato che inizialmente aveva pensato di intraprendere la carriera politica o diplomatica. Ma che dopo tre anni di studi in Scienze politiche e una laurea con il massimo dei voti ha deciso di cambiare e di dedicarsi alla letteratura. Mi ha detto una cosa che mi ha fatto riflettere: «Le norme che salvaguardano i diritti umani ci sono, ma sono sistematicamente disattese. Meglio nutrire le coscienze per ritrovare le ragioni dell’umanità». A quella ragazza e a quanti la pensano come lei dobbiamo restituire fiducia in una politica che sia capace di curare le ferite dell’umanità, che sappia difendere quello che proclama e che non si arrenda al potere della finanza. Una politica in grado di smascherare le bugie della propaganda per costruire modelli nuovi di convivenza pacifica.

Non esisteva ieri e non esiste neppure oggi l’invasione millantata dalla destra. Ce lo dicono i numeri: nel 2022, sono state poco meno di un milione le persone che hanno presentato domanda di protezione internazionale negli Stati dell’Unione e gli ingressi irregolari sono stati solo 330.000. Tali cifre rappresentano solo lo 0,2% della popolazione europea e si tratta quindi di un afflusso perfettamente gestibile se solo si attuassero politiche di ridistribuzione delle persone che arrivano alle nostre frontiere nei vari paesi dell’Unione. Quello che alcuni paesi come Polonia, Ungheria, ma anche Grecia, Svezia e l’Italia, non vogliono.

Per questo motivo il percorso di modifica del regolamento di Dublino secondo un principio di condivisione solidale tra gli Stati membri (così come votato in Parlamento europeo), è un risultato tutt’altro che scontato benché possa risolvere gli affanni dei paesi di primo approdo e costituire l’inizio di una nuova era: il passaggio da una gestione del fenomeno migratorio come emergenza a un governo del fenomeno “conveniente” per tutti, anche per la nostra Europa alle prese con un pericoloso crollo demografico e bisognosa di energie nuove per andare avanti.

Con l’attacco di Hamas a Israele e l’inizio della controffensiva israeliana su Gaza, la strada della solidarietà, a chi come me guarda ai fatti del mondo dalla prospettiva del mare, sembra oggi ancora l’unica possibile se non vogliamo che il mondo si frantumi nuovamente in blocchi contrapposti e che gli estremismi possano tornare a sconvolgere non solo il Medio Oriente ma la quotidianità dell’Occidente. Non è fermando chi fugge da guerra, povertà e violenze che si argina il terrorismo, né tantomeno che si impedisce la radicalizzazione di chi vive già in Europa. Semmai è l’esatto contrario. Criminalizzazione e marginalizzazione producono solo rancore e odio. L’accoglienza ben organizzata crea invece comunità nuove, culturalmente più ricche, vitali e forti.

I negoziati sul nuovo Patto per la migrazione che seguo da vicino come relatore ombra di S&D per il dossier sul Regolamento per la gestione di migrazione e asilo, sono in corso. Ma l’accordo verso cui spinge il Consiglio europeo mi preoccupa perché mira a rimpatri e all’esternalizzazione delle frontiere, più che a una ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri. Del resto, il presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni lo ha ripetuto a più riprese negli ultimi mesi: «la redistribuzione non può essere la risposta al fenomeno migratorio». Lo ha detto al fianco di Ursula von der Leyen il 17 settembre scorso a Lampedusa, quando in poche ore sono giunte sull’isola centinaia di barchini e l’hotspot si è trovato a dover ospitare in condizioni disumane 7000 persone, più del numero degli abitanti dell’isola. Lo ha sostenuto anche nella sua replica in Senato, alla vigilia dell’ultimo Consiglio europeo di fine ottobre.

Ma cosa significa bloccare le partenze esternalizzando le frontiere quando i paesi terzi con cui si stringono gli accordi sono in mano a regimi dittatoriali o governi autarchici e non rispettano i diritti umani? Significa condannare alla morte e alle torture migliaia di persone. L’abbiamo visto per anni con la Libia e vi garantisco – perché ho ascoltato i racconti di chi è passato da quei lager e visto con i miei occhi i loro corpi – che le violenze subìte da queste persone sono qualcosa di terribile. Ma lo sappiamo anche dagli accordi con la Turchia, e adesso con la Tunisia: questi memorandum diventano per i paesi terzi armi di ricatto nei confronti dell’Europa. Il bilancio di questi anni è non solo un bilancio con un numero altissimo di vittime (oltre 26.000 dal 2014 ad oggi secondo OIM, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni) ma una sequela di buone intuizioni politiche fatte naufragare costruendo e alimentando la paura dell’invasione. Penso innanzitutto all’operazione Mare Nostrum ma anche al lavoro di tante ONG che si sono fatte carico di proseguire l’azione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo e che dopo la strage di Cutro sono criminalizzate e ostacolate nel loro impegno. Additate dalla destra come pull factor. Nel mio taccuino ho appuntato le ultime dichiarazioni della premier nella sua replica al Senato in cui definisce un elemento di pull factor anche la ricollocazione di chi arriva sulle nostre coste per chiedere asilo. Credo che la propaganda anti-migranti non sia mai stata così pericolosa e disumana. Mai così lontana dal rispetto dei diritti umani fondamentali.

In Parlamento europeo il Gruppo S&D ha provato più volte a chiedere una Mare Nostrum europea malgrado la forte resistenza dei partiti più conservatori. A luglio, dopo il naufragio di Pylos al largo della Grecia con più di 580 tra morti e i dispersi (la strage più grave nel Mediterraneo dopo Lampedusa), siamo riusciti ad approvare un testo congiunto che invita gli Stati membri, la Commissione e Frontex a rafforzare le operazioni SAR attraverso navi, attrezzature e personale dedicati e a non criminalizzare le ONG. Molti giornali l’hanno definita una “Mare Nostrum europea”. Nella realtà quella risoluzione che richiama la «legge universale del mare» e «le norme di diritto internazionale», è rimasta finora lettera morta mentre gli Stati membri e il Consiglio europeo discutono di altro.

Lo sguardo di medico a Lampedusa mi fa dire che l’Europa rischia nuovamente di sbagliare rotta. Di più: rischia di naufragare insieme ai migranti perché niente può fermare la fuga di queste persone. Salire su una barca, anche sulle trappole in lamiera costruite in Tunisia e saldate solo in alcuni punti, è per la maggior parte di loro l’unica chance che hanno per non morire, non il contrario. Si pensi alla giornalista afghana Torpekai Amarkhel, tra le vittime di Cutro. Con l’avvento dei talebani per lei restare era diventato impossibile.

Come relatore ombra del Gruppo S&D ho seguito il percorso legislativo della proposta di Regolamento per la gestione dell’asilo e della migrazione che sostituirà il Regolamento di Dublino, facendo tesoro dell’esperienza maturata in tanti anni a Lampedusa e delle storie che mi sono state raccontate. Le violenze subite da donne, uomini e bambini restano nelle cicatrici, nelle bruciature, nei corpi scuoiati. Anche i corpi senza più vita parlano e io ne ho ispezionati tanti, troppi, per rimanere indifferente.

Quando a marzo 2022, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il Consiglio europeo ha deciso di attivare la direttiva 55 del 2001 che concede la protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati promuovendo la solidarietà tra gli Stati membri, mi sono sentito sollevato e non solo per i profughi di quel paese. Ho creduto che la direttiva sarebbe stata applicata anche per chi fugge da guerre in altri luoghi del mondo e che sarebbe stata una svolta per la migrazione della rotta mediterranea. Non è stato così. L’approvazione del nuovo Patto sulla migrazione è ora un’altra opportunità che abbiamo per cambiare le cose. Da come condurremo il negoziato in corso dipenderà, prima ancora che l’esito della riforma, la credibilità della nostra proposta politica.

La mia esperienza mi fa dire, senza timore di essere smentito, che niente può fermare chi decide di partire perché i rischi della traversata per queste persone sono spesso l’unica speranza di vita che hanno. Niente può fermare i viaggi in mare se non l’apertura di vie legali di accesso. Ma l’unica apertura che il governo Meloni ammette è per motivi economici. Il decreto flussi 2023-25 prevede l’arrivo in Italia di 450.000 persone, funzionali al nostro sistema produttivo. Per i richiedenti asilo, invece, tutto diventa più complicato.

Il mio punto di osservazione resta il mare. E questo punto di osservazione mi rende triste e preoccupato perché mi appare chiaro quanto il “peso” dell’Unione europea davanti alle sfide globali diventi sempre meno rilevante man mano che si svuota dei suoi valori fondanti: libertà, democrazia, uguaglianza e Stato di diritto, promozione della pace e della stabilità per riparare agli errori del secolo scorso. Anche per questo ho votato a favore del “cessate il fuoco” a Gaza e, prima ancora, contro l’utilizzo dei fondi del PNRR per l’acquisto degli armamenti. Chi guarda al mondo dal mare, questo lo sa.