Il contributo dell’immigrazione nel contrasto all’inverno demografico italiano

Di Laura Zanfrini Lunedì 18 Dicembre 2023 12:46 Stampa
Il contributo dell’immigrazione nel contrasto all’inverno demografico italiano ©iStockphoto/cienpies con elaborazione grafica di Emanuele Ragnisco

 

Dopo decenni di imperdonabile disattenzione, la questione demografica si è finalmente affermata nell’agenda pubblica e di governo. Le ragioni e le dimensioni dell’“inverno demografico” che attanaglia l’Italia sono note: da un lato la straordinaria longevità degli italiani, che li ha portati a raggiungere una aspettativa di vita pari a 83 anni;1 dall’altro un tasso di natalità attestato, dalla fine degli anni Settanta, al di sotto del livello di sostituzione (definito poco sopra i 2 figli per donna). Per quanto salutari e assolutamente indispensabili, gli interventi a sostegno della genitorialità – introdotti a livello istituzionale ma anche, sempre più spesso, attraverso iniziative di welfare aziendale – arrivano troppo tardi per correggere un trend praticamente irreversibile, almeno nel breve-medio periodo. Le poche nascite di oggi, infatti, hanno sicuramente a che vedere coi bassi tassi di fecondità (1,24 figli per donna nel 2022), ma solo in minima parte: secondo i calcoli dell’Istat,2 ben quattro quinti della riduzione del numero di nati è imputabile alle scarse nascite del passato che hanno drasticamente ridotto l’universo dei potenziali genitori. Uomini e donne in età riproduttiva su cui grava oggi il compito non solo di invertire la discesa delle nascite – costante e imperturbabile, tanto da segnare ogni anno un ennesimo record storico –, ma anche di farsi carico, sul piano della spesa pensionistica e sanitaria e su quello delle cure quotidiane, di una platea di anziani e grandi anziani sempre più affollata. Un solo dato basta a sintetizzare le conseguenze della transizione demografica in atto: secondo lo scenario mediano delle più aggiornate previsioni Istat,3 tra meno di vent’anni, oltre un abitante su tre in Italia avrà più di 65 anni di età.

Si spiega così perché il tema del potenziale contributo demografico dell’immigrazione si sia conquistato uno spazio del tutto inedito. A suggerire di ricorrere all’importazione di immigrati dall’estero per correggere gli indicatori demografici e del mercato del lavoro è stato, in primo luogo, il mondo delle imprese, alle prese con difficoltà di reclutamento e reduce dalla lezione della pandemia che ha reso manifesta la rilevanza dei lavoratori stranieri, molti dei quali, impiegati in mansioni essenziali, rientrano tra i cosiddetti key workers. Ai nostri giorni, a dispetto di un tasso di occupazione mai così elevato nella storia italiana, molte aziende sperimentano la fatica nel trovare e trattenere risorse umane presenti in numero insufficiente e che sempre più esprimono aspettative di armonizzazione in senso lato tra vita e lavoro che ne limitano la disponibilità. In un contesto di maggiore consapevolezza per la necessità di costruire organizzazioni del lavoro inclusive, che non lascino indietro nessuno, anche i ruoli potenzialmente occupabili dagli immigrati si avviano dunque a crescere (a dispetto di un quadro d’insieme che li vede ancora concentrati nei lavori poco qualificati e a bassa retribuzione), specie in vista dell’imminente uscita dal mercato del lavoro delle folte generazioni dei baby boomers.

Del resto, già nel 2000, un rapporto delle Nazioni Unite4 stimava che, per soddisfare la domanda di lavoro e sostenere il sistema contributivo, sarebbe stato necessario richiamare dall’estero ben 12 milioni di immigrati entro il 2050. Quasi un quarto di secolo dopo, l’ulteriore involuzione degli scenari demografici conferma quanto l’immigrazione sia essenziale per contenere le conseguenze sia dell’eccesso di decessi rispetto alle nascite, sia di una popolazione sempre più anziana e del suo impatto sull’indice di dipendenza (destinato, secondo le attuali previsioni, a raggiungere il 40% già nel 2026, per poi salire al 50% nel 2035 e al 60% nel 2042).5

Di fatto, è ormai da quarant’anni che, dapprima la crescita della popolazione residente e quindi – dal 2015 – il contenimento della sua decrescita, sono interamente ascrivibili alle dinamiche migratorie: inizialmente ai rientri degli emigrati italiani e poi, dall’ultima decade del XX secolo, agli ingressi di stranieri, con un’intensificazione registrata nel passaggio al nuovo millennio. Sommando agli oltre 5 milioni di stranieri residenti coloro che (regolarmente o irregolarmente soggiornanti) non risultano iscritti in anagrafe e soprattutto le centinaia di migliaia di immigrati che hanno nel tempo ottenuto la cittadinanza italiana (trasmettendola ai loro figli e nipoti), si arriva a sfiorare gli 8 milioni di soggiornanti con un background migratorio: tanto basta per apprezzare quanto indispensabile sia stato l’apporto dell’immigrazione non solo, come spesso si sente affermare, “per fare i lavori che noi non vogliamo più fare”, ma anche su un piano strettamente demografico. Considerando poi i dati più recenti si può osservare come il saldo migratorio complessivo (risalito nel 2022 a quasi 229.000), sebbene insufficiente a controbilanciare un saldo naturale drammaticamente negativo (-321.000 nello stesso 2022, dati provvisori), continua però ad essere fondamentale per mitigare le conseguenze della bassissima fecondità. Basti pensare che gli arrivi dall’estero hanno garantito, tra il 1993 e il 2022, un saldo migratorio complessivamente pari a oltre 6 milioni di unità.6 E perfino nell’ipotesi, del tutto irrealistica, in cui dovessero azzerarsi i nuovi ingressi (ovvero, indipendentemente dal volume degli arrivi), la componente della popolazione con un background migratorio continuerebbe comunque ad aumentare grazie alle nascite da genitori immigrati, ancor più preziose per i nostri scenari demografici. Spesso, infatti, si sottovaluta come i migranti di prima generazione non costituiscono di per sé un fattore di ringiovanimento della popolazione, ma possono addirittura contribuire all’“invecchiamento importato”, proprio perché hanno davanti a loro meno anni di vita (e di vita attiva) rispetto a chi nasce in Italia.

Sebbene in diminuzione (anche per effetto delle acquisizioni di cittadinanza da parte di molti genitori immigrati, che determinano la loro invisibilità statistica), i nati con almeno un genitore straniero – passati da oltre 107.000 nel 2012 a quasi 86.000 nel 2021– costituiscono più del 20% del totale: un apporto quanto mai significativo nel paese dalle “culle vuote” e molto più rilevante del contributo che dall’immigrazione proviene al numero dei decessi. Una popolazione straniera residente ancora decisamente più giovane di quella italiana e con un tasso di fecondità che, sebbene in riduzione (dal 2,47 figli per donna nel 2003 all’1,87 del 2021) è ancora molto più elevato di quello complessivo, presenta un tasso di crescita naturale tuttora positivo (9,2‰ nel 2021, rispetto ai valori intorno al 20‰ della prima parte degli anni Duemila), decisamente utile nell’attenuare il tasso naturale negativo degli italiani.

Se tutto ciò ci porta a considerare con grande interesse il ruolo dell’immigrazione nell’affrontare gli scenari demografici che si profilano all’orizzonte della società italiana, vi sono alcuni aspetti cui guardare con attenzione per non rischiare che da soluzione, quanto meno parziale, l’immigrazione diventi parte del problema, amplificando gli squilibri interni e i divari con gli altri paesi. Innanzitutto, vale la pena interrogarsi sulla capacità attrattiva dell’Italia, atteso che il paese ha fino ad oggi fallito l’obiettivo di un governo dei flussi rispondente ai fabbisogni del mercato del lavoro e alle istanze di sostenibilità nel lungo periodo degli stessi percorsi migratori e di inclusione. A livello internazionale, a dispetto di un discorso pubblico dominato dalla preoccupazione nei confronti dell’immigrazione “non voluta” e dalle misure utili a contrastarla, non mancano esempi di paesi che hanno scelto di implementare schemi migratori diretti a contrastare il declino demografico. In Germania, ad esempio, un evidente obiettivo collaterale dell’apertura alle famiglie di profughi in fuga dalla guerra (i siriani prima, gli ucraini poi) è stato quello di invertire il trend di riduzione della popolazione, rispondendo sia ai fabbisogni immediati del mercato del lavoro, sia alla necessità di assicurare in futuro il turnover generazionale: esigenze che hanno spinto a consegnare alla storia la concezione rigorosamente etnica della nazione che così profondamente l’ha caratterizzata. In termini più ampi, la sfida comune di gestire le conseguenze della transizione demografica e un numero crescente di job vacancies prefigura una competizione globale per l’attrazione di risorse umane con diversi livelli di qualificazione; non solo, dunque, la talented immigration che ha egemonizzato le politiche migratorie degli ultimi decenni, ma anche figure a media e bassa qualificazione. Una competizione che vedrà l’Italia concorrere ad armi spuntate per ragioni che riguardano non tanto il regime migratorio attualmente in vigore (ancorché noti siano i suoi limiti e la necessità di un suo ridisegno),7 quanto i caratteri complessivi di quello che si è soliti definire l’“eco-sistema”. Tra le molte criticità che occorrerebbe aggredire si possono citare l’atavica inefficienza delle burocrazie pubbliche (esemplificata dal ritardo con cui procede l’esame delle domande di regolarizzazione presentate ormai più di tre anni fa),8 l’inoperatività della rete dei centri pubblici per l’impiego, i deficit nel presidio istituzionale dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro, l’ampia diffusione del lavoro irregolare così come, su un altro fronte, le criticità che derivano dalla “qualità” complessiva dell’occupazione, fortemente compromessa dalla diffusione di cattivi lavori e bassi salari. Questo punto ci introduce a un ulteriore aspetto cui occorre prestare attenzione, relativo alla “qualità” dell’immigrazione o, più precisamente, dei modelli di inclusione socio-occupazionale. Se si guarda a questi ultimi è facile intuire, ad esempio, perché l’Italia mostri una peculiare attrattività nei confronti dell’immigrazione meno istruita, tanto da porsi all’ultimo posto della classifica europea relativa alla distribuzione per livello di istruzione degli stranieri residenti nei diversi paesi.9 In termini più ampi, la struttura di opportunità accessibili agli immigrati produce inevitabilmente una immigrazione “povera”, sebbene straordinariamente preziosa nel supportare i bisogni di imprese e famiglie e, secondo le analisi ad oggi disponibili, lo stesso sistema pensionistico. Detto in termini ancora più crudi, con addirittura il 34% di stranieri in povertà assoluta,10 l’immigrazione sta dando un grosso contributo alla crescita del numero di persone e famiglie in condizioni di vulnerabilità. Cosa che peraltro non deve certo stupirci, visto che degli immigrati apprezziamo soprattutto l’adattabilità e il basso salario di riserva. A scanso d’equivoci va precisato che l’apertura nei confronti degli immigrati più vulnerabili – specie nella gestione delle richieste di protezione o nel quadro di iniziative come i corridoi umanitari – è un punto di merito per l’Italia, che si è fino ad oggi mantenuta estranea a quelle posture selettive (ma forse sarebbe più corretto definirle darviniste) tipiche di nazioni spesso acriticamente prese a modello (è il caso del Canada, dove elevata istruzione e buona salute sono filtri impiegati perfino per selezionare i rifugiati). E tuttavia, quando all’accoglienza segue un destino di svantaggio strutturale vi è da interrogarsi non solo sull’eticità di un “modello” di inclusione che sconfessa i principi di uguaglianza e pari opportunità, ma sulla sua stessa sostenibilità: cosa ne sarà, ad esempio, delle centinaia di migliaia di colf e assistenti familiari (sprovviste di un regolare contratto di lavoro in 6-7 casi su 10) che nei prossimi anni raggiungeranno l’età del pensionamento senza però avere maturato il diritto a una pensione dignitosa? E cosa ne sarà delle centinaia di migliaia di giovani d’origine straniera tanto più a rischio di povertà quando appartengono a famiglie che hanno avuto l’audacia di mettere al mondo dei figli nel nostro paese? Un paese in cui la povertà è fortemente correlata alla presenza di (più) figli piccoli, per tutti, ma soprattutto per le famiglie immigrate (nel 2022 sono in povertà assoluta il 7,8% delle famiglie con minori composte da soli italiani, il 21,4% delle famiglie miste e ben il 36,1% di quelle composte solamente da stranieri).11

In altri termini, se è pur vero che, per la maggioranza degli immigrati, i modesti redditi raggiunti in Italia possono comunque risultare vantaggiosi in rapporto ai livelli salariali dei paesi di provenienza, nel momento in cui l’immigrazione diventa familiare – e come tale decisamente più preziosa dal punto di vista demografico – i nodi vengono al pettine. Tutti i dati di cui disponiamo ci dicono che la vulnerabilità socioeconomica delle famiglie immigrate si sta riverberando sui loro figli che, non a caso, ritroviamo fortemente sovra-rappresentati, ad esempio, tra chi abbandona precocemente la scuola. Ed è proprio il loro “peso” in termini demografici a doverci mettere in guardia rispetto alle conseguenze di fenomeni che, oltre che imbarazzanti sul piano etico, rischiano di risultare estremamente problematici sul piano della sostenibilità. I destini e i problemi dei figli dell’immigrazione sono infatti profondamente intrecciati a quelli della società italiana di oggi e di domani. Una società di vecchi e, ciò nondimeno, incapace di mettere a valore quello che dovrebbe essere il suo tesoro più prezioso, costituito dai (pochi) giovani, molti (troppi) dei quali restano ai margini del mercato del lavoro e dei sistemi formativi. Specie se stranieri: in un paese che, fino al 2021, ha vantato il triste primato in Europa dei NEET tra i 15-24enni (superata nel 2022 dalla Romania), con un’incidenza del 15,9%, i giovani stranieri in tale condizione sono addirittura il 22,8%.12

In definitiva, la valorizzazione del contributo demografico dell’immigrazione non può prescindere da una reale evoluzione nei percorsi di inclusione socio-occupazionale, che sono a loro volta riflesso dei molteplici problemi che minano la sostenibilità dei nostri “modelli” economici e sociali: dalla diffusione del lavoro “cattivo” ai meccanismi che fanno sì che in Italia, ancor più che altrove, la povertà sia un destino spesso ereditato dalla nascita, indipendentemente dalla nazionalità. Al tempo stesso, però, si avverte l’esigenza di un salto di qualità anche sul piano culturale e delle rappresentazioni condivise dell’immigrazione, spesso paradossalmente veicolate proprio dagli attori politici e sociali “pro-immigrati” che, con la loro insistenza sul “nostro” bisogno del “loro” lavoro flessibile e a buon mercato, hanno finito col consolidare l’immagine di una società duale, se non addirittura castale.13 Ad imporci tale salto di qualità sono proprio i valori sui quali pretendiamo di fondare la nostra identità nazionale. Ma anche, con ancor più immediatezza, le ragioni della demografia.


[1] Eurostat, Life expectancy at birth by sex, disponibile su ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/tps00205/default/table?lang=en.

[2] Istat, Indicatori demografici. Anno 2022, 7 aprile 2023, disponibile su www.istat.it/it/files/2023/04/indicatori-anno-2022.pdf.

[3] Istat, Previsioni della popolazione residente per sesso, età e regione - Base 1/1/2022, disponibile su demo.istat.it/app/?i=PPR&l=it.

[4] United Nations Secretariat, Population Division-Department of Economic and Social Affairs, Replacement Migration: Is it A Solution to Declining and Ageing Populations?, 21 marzo 2000.

[5] Istat, Previsioni della popolazione residente cit.

[6] Eurostat, Immigration by age and sex, disponibile su ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/migr_imm8/default/table?lang=en; Eurostat, Emigration by age and sex, ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/migr_emi2/default/table?lang=en; Istat, Bilancio demografico e popolazione residente per sesso al 31 dicembre 2022, disponibile su demo.istat.it/app/?l=it&a=2022&i=P02.

[7] Per l’approfondimento di questo tema si rimanda a: Settore Economia e Lavoro di Fondazione ISMU (a cura di), Libro Verde sul governo delle migrazioni economiche. Analisi, indicazioni e proposte per la stesura di un Libro Bianco sul ridisegno degli schemi di governo delle migrazioni economiche e delle procedure per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro straniera, Fondazione ISMU, Milano, settembre 2021, disponibile su www.ismu.org/libro-verde-sulle-migrazioni-economiche/; L. Zanfrini, Libro Bianco sul governo delle migrazioni economiche. Indicazioni e proposte sul ridisegno degli schemi di governo delle migrazioni economiche e delle procedure per l’incontro tra domanda e offerta di lavoro straniera, Fondazione ISMU, Milano, gennaio 2023, disponibile www.ismu.org/libro-bianco-sul-governo-delle-migrazioni-economiche/.

[8] Campagna Ero Straniero, Ritardi gravissimi nelle prefetture di Roma e Milano con meno del 60% delle richieste esaminate. La carenza di personale è un’emergenza su cui devono intervenire governo e Parlamento, disponibile su erostraniero.it/wp-content/uploads/2023/11/Ero-straniero_nota-organico-PA-e-regolarizzazione_16nov2023.pdf.

[9] Eurostat, Population by educational attainment level, sex, age and citizenship (%), disponibile su ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/EDAT_LFS_9911__custom_6572736/default/table?lang=en.

[10] Istat, Le statistiche dell’Istat sulla povertà - Anno 2022, disponibile su www.istat.it/it/archivio/289724#:~:text=L’incidenza%20della%20povert%C3%A0%20assoluta,soglia%20sono%202%2C8%20milioni.

[11] Istat, Le statistiche dell’Istat sulla povertà - Anno 2022, 25 ottobre 2023, disponibile su www.istat.it/it/archivio/289724#:~:text=L’incidenza%20della%20povert%C3%A0%20assoluta,soglia%20sono%202%2C8%20milioni.

[12] Eurostat, Young people neither in employment nor in education and training (NEET), by citizenship, disponibile su ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/sdg_08_20a/default/table?lang=en, ultimo aggiornamento 14 settembre 2023.

[13] L. Zanfrini, From slaves to key workers? How migration questions the sustainability of the Italian socio-economic model, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, 1/2022, pp. 35-62.