La sinistra tra falsi miti e sogni perduti dell’America Latina

Di Loris Zanatta Giovedì 26 Ottobre 2017 16:09 Stampa

Che cosa vede la sinistra europea nell’America Latina? Soprattutto quella “redentiva”, che ha sempre avuto un debole per il continente latinoamericano, al punto da erigerlo a mito da compatire e redimere, da sedurre e poi abbandonare, ma anche quella riformista, che nella democrazia liberale e nel mercato crede, seppure cerchi di rendere più inclusiva la prima e di governare il secondo. Per entrambe l’America Latina è un folclorico calderone rivoluzionario, privo di tradizione democratica. Sarebbe ora che l’intera sinistra facesse un serio sforzo per riconsiderare e superare i sogni, le utopie e i miti latinoamericani.

 

Dell’onda rosa che investì l’America Latina quindici anni fa facendo­ne oscillare a sinistra il pendolo politico, non rimane oggi granché; e il poco che rimane lascia a desiderare. Le cause di tale riflusso sono molteplici e variano da paese a paese: l’economia, le istituzioni, la corruzione e così via. Meglio perciò interrogarsi su taluni nodi che vi stanno a monte; nodi di natura culturale racchiusi in alcune semplici domande: qual è l’idea di ordine sociale e politico prevalente nella sinistra latinoamericana? E qual è l’idea di America Latina più diffusa nella sinistra europea? Non sono domande bizantine, se si considera che da trent’anni in qua l’America Latina si è lasciata alle spalle le dit­tature militari e i focolai guerriglieri, aprendo un ciclo storico che per tanti aspetti evoca quello europeo dopo la seconda guerra mondia­le. Seppur tra sobbalzi ed enormi limiti, infatti, anch’essa ha trovato nelle istituzioni della liberaldemocrazia e nell’economia di mercato il terreno di convergenza. Ovvio che la dialettica all’interno di tali parametri sia e debba essere immensa. Ma la domanda è se la sinistra latinoamericana ed europea li riconosca come tali oppure no. L’esperienza dell’ultimo decennio ci dice due cose, in proposito. La prima è che era sbagliata la nozione stessa di onda rosa: c’erano go­verni riformisti in paesi dove la democrazia liberale e l’economia di mercato sono consolidati, come Cile e Uruguay; e c’erano regimi po­pulisti avversi all’una e all’altra, come in Venezuela e in altri casi. La seconda è che buona parte della sinistra ha confuso contesti così diversi tra loro. Com’è possibile? Forse perché non ritiene affatto che la democrazia liberale e l’economia di mercato siano il terreno entro il quale agire; e che entrambi siano ripieghi tattici dietro i quali palpita come un tempo l’antica pulsione rivoluzionaria. In tal senso, la sini­stra latinoamericana ha un problema con la democrazia e la sinistra europea ha un problema con l’America Latina. Vediamoli.

Sorvolerò sull’utilità o meno dell’impiego di tale categoria e mi li­miterò a osservare ciò che è ovvio: di sinistre ve ne sono diverse. Per semplificare, c’è quella riformista che nella democrazia liberale e nel mercato crede, seppur cerchi di rendere più inclusiva la prima e di governare il secondo; e c’è quella che chiamerò “redentiva”, che al massimo li tollera ma non li digerisce. Ebbene, la sinistra redentiva europea ha sempre avuto un debole per l’America Latina. O meglio: per una certa idea di America Latina. E poiché l’America Latina, in Europa, è sua riserva di caccia, quell’idea tiene banco, impregnando spesso anche la sinistra riformista. E questo è grave. Di che idea parlo? Presto detto. Ogni anno chiedo ai miei studenti: chi sa chi era Hugo Chávez? Selve di mani alzate. E Fidel Castro? Un coro unanime. Poi chiedo: conoscete Ricardo Lagos? Silenzio. E Raúl Alfonsín? Silenzio tombale. In tale visione l’America Latina è un folclorico calderone rivoluzionario privo di tradizione democratica. È corretto? No, è sba­gliato. Ma tant’è.

L’America Latina si presta senz’altro a una narrazione storica coerente con i valori della sinistra redentiva: è l’area di maggiore diseguaglian­za sociale, è minata da profonde discriminazioni etniche e di gene­re, ricade nella sfera della maggiore potenza liberale e capitalista. Da qui a mescolare tali ingredienti, condirli di una sacra indignazione morale e trarne conclusioni apocalittiche che sfociano nella catarsi rivoluzionaria basta un passo. E la sinistra redentiva è ansiosa di far­lo. L’America Latina è per essa l’epitome della dominazione di classe e degli Stati Uniti, delle ingiustizie del capitalismo, della farsa della democrazia liberale. A dire il vero, è più che mai dubbio che tale narrazione sia corretta. Anzi, si potrebbe ribaltarla e sostenere che all’origine dei tanti mali dell’area vi sia proprio lo scarso radicamento del capitalismo e del li­beralismo, piegati alla propria bisogna dal patrimonialismo, corpora­tivismo, familismo e clientelismo tipici del retaggio ispanico. Questo, ad esempio, è quel che io penso dopo trent’anni di studi. Ma lascia­mo perdere e ammettiamo che sia comunque una narrazione dai toni epici. Il grottesco è però in agguato e chi ama narrarla su un crescen­do di violini, dovrebbe guardarsi dagli echi dei tromboni. Madre di tale mito latinoamericano della sinistra europea, per dire, è la rivoluzione cubana, prima oasi latina del turismo rivoluzio­nario. Ebbene, la stessa generazione che nel 1968 infiammò l’Europa al grido di sesso, droga e rock and roll contro la società patriarcale, inneggiava a quella remota rivoluzione tropicale che aveva imposto un austero puritanesimo, teorizzava una bizzarra eugenetica per redimere dal­le deviazioni sessuali e mandava ai campi di lavoro chi ascoltava i Beatles. Tutto ciò è arcinoto ed è solo la punta dell’iceberg. Eppure capita ancora oggi di sentire un pacifico e pacioso dirigente della si­nistra riformista italiana invocare il Che a difesa della democrazia interna nel suo partito! Da arrossire dalla vergogna, o da spanciarsi dalle risate. Oppure capita che una prestigiosa casa editrice di area progressista mi inviti a tenere la millesima lettura sul viaggio rivo­luzionario di Guevara, personalità anacronistica come poche e alla quale, a cinquant’anni dalla morte, sarebbe il caso di dedicare semmai una riflessione critica. Se ne coglierebbe forse la clamorosa sopravva­lutazione e l’eredità fallimentare, costata la vita a migliaia di giovani morti inseguendo la via armata.

Dalla rivoluzione in poi se ne son viste di tutti i colori e tutte bar­date della stessa arroganza. Toccò ai sandinisti assurgere a eroi della sinistra europea, finché la piñata, ossia il patrimonio pubblico che si spartirono nel 1990, imbarazzò molti devoti. Ma per fortuna si sol­levò il subcomandante Marcos: nel Chiapas si sentì per anni parlare più tedesco o italiano che náhuatl. Poi arrivò Chávez, finalmente, e la grancassa tornò a suonare. Quando il chavismo nuotava nell’oro, Caracas si colmò di cervelloni francesi, spagnoli e italiani in cerca di lauti contratti: del loro passaggio non rimane traccia, a meno che non sia la tragedia sotto i nostri occhi. L’Italia è colma di dotti poli­tici e intellettuali che gridarono al golpe quando il governo italiano sottomise a referendum una riforma costituzionale senz’altro opina­bile, ma esposta a voto e dibattito democratico; intanto plaudivano a Maduro e alla costituente con cui aboliva il Parlamento. Anche qui: ci sarebbe da ridere, se non facesse piangere.

Il caso più patetico è l’amore della sinistra, redentiva e non, per Pepe Mujíca. Non tanto per il personaggio in sé, che pure giudico un pes­simo presidente, ma perché il suo caso testimonia oltre ogni dubbio la grande forza della antica democrazia uruguayana, capace di trasfor­mare un militante armato in un presidente costituzionale. Eppure non è così che la vede la sinistra, cui piace pensare che con lui trionfa il vecchio ideale rivoluzionario, ora condito con quel pauperismo che basta per farne un santino cattocomunista. Per non dire di Lula, cui si per­dona tutto: se l’imputato di corruzione è un av­versario dev’esserci per forza del marcio, ma se è Lula, ci sarà dietro la CIA.

Ma cosa cerca la sinistra europea nell’America Latina? Al punto di farne uno stereotipo fermo ai “mitici anni Sessanta”, da erigerla a mito da compatire e redimere, da sedurre e poi abban­donare? Come sempre, il mito non riguarda chi ne è oggetto, ma chi lo crea e vi crede. E la sinistra cerca in America Latina i sogni perduti, l’utopia cui ha dovuto rinunciare in Europa, dove ha ingoiato ciò che aveva desiderato spazzare via: la democrazia liberale e l’economia di mercato, guarda caso. Poiché però entrambi vi hanno piantato radici, essa vi è costretta a fare buon viso a cattivo gioco e stare alle regole che la vita europea impone. Ma appena sente partire in America Latina un treno che intona l’antica litania rivolu­zionaria, eccola saltarci sopra e sentirsi di nuovo giovane.

Così facendo, la sinistra redentiva europea fa danni: incoraggia l’uto­pismo redentivo latinoamericano che uccide la democrazia, le buone istituzioni e la crescita economica; ossia gli ingredienti grazie ai quali l’Europa ha avuto successo. E incoraggia il loro opposto, le pulsio­ni che avevano portato l’Europa ai totalitarismi e alle guerre civili. È come se essa volesse vendicare in America Latina la sua sconfitta storica in Europa. Non c’è in ciò un implicito razzismo? Uno spu­ dorato eurocentrismo? Come se per ottenere una società più giusta e inclusiva ai latinoamericani non fosse concessa la via democratica e riformista di cui hanno beneficiato gli europei, ma solo quella del più rozzo populismo. Tale sinistra gioca su due tavoli: quello demo­cratico quando non c’è alternativa, quello rivoluzionario appena ne fiuta l’odore. E lo stesso fa gran parte della sinistra latinoamericana. Qualcuno, come Teodoro Petkoff, guerrigliero un tempo e poi corag­gioso riformista sociale venezuelano, l’ha pagato in prima persona. Come tanti, anch’egli si innamorò di Lula: ecco la sinistra riformista e democratica che tanto attendevo, pensò. E come lui, è onesto dirlo, pensammo tutti. E in effetti sarebbe ingiusto negare a Lula importan­ti risultati. Eppure è difficile negare la sua responsabilità politica, al di là dei sacrosanti dubbi su quella giudiziaria, nella tremenda spirale corruttiva in cui il Brasile ha bruciato risorse al cui cospetto gli scan­dali italiani sono scherzi. Così come è difficile non vedere che mentre Lula ha beneficiato delle coraggiose riforme compiute dal suo prede­cessore, s’è ben guardato dal profittare della sua enorme popolarità per fare a sua volta le riforme strutturali di cui il paese aveva urgente bisogno. In tal senso, a Lula è mancato coraggio riformista e non è un caso che, appena il ciclo economico favorevole s’è invertito, il Brasile sia crollato nella più grave recessione della sua storia.

Ma torniamo a Petkoff. Quando udì Lula farsi beffe dei prigionieri politici cubani e lo vide andare a braccetto con Chávez, ossia di colui che stava schiacciando come mosche i riformisti venezuelani, esplo­se come solo un amante tradito può esplodere: “Lula è un figlio di puttana”, scrisse il 15 marzo 2010. Da allora l’abisso tra la sinistra riformista e quella redentiva è incolmabile. Ma mentre un coro di solidarietà accompagna ovunque Lula, nessuno più ricorda il vecchio Petkoff, malato, isolato e perseguitato da Maduro.

La sinistra riformista, credo, farebbe bene a non essere indulgente, come spesso è, con la sinistra redentiva: il rischio è di giacere al suo fianco nella tomba morale del chavismo. E farebbe bene a rinunciare alla ricerca di partiti cugini: nulla vi è di più progressista nell’America Latina odierna di coloro che si battono per consolidare la democrazia e una sana economia di mercato, quale che sia la loro etichetta ide­ologica. Infine, sarebbe ora che l’intera sinistra si scrollasse di dosso la scimmia del passato e invece di inseguire in America Latina i suoi miti, facesse un serio sforzo per rinnovare il repertorio.