Gaza. Una guerra, molte guerre.

Di Lucio Caracciolo
Gaza. Una guerra, molte guerre. ©iStockphoto/Stadtratte

 

1. La guerra di Gaza non è la guerra per Gaza. Il 7 ottobre è iniziata una nuova, decisiva fase bellica che determinerà il futuro della regione. Una guerra che potrà estendersi non solo ai territori intorno allo Stato ebraico, a cominciare dal Libano, ma coinvolgere tutta l’area tra Mediterraneo orientale, Mar Rosso Mar Nero e Oceano Indiano. Così toccando di fatto il teatro russo-ucraino. I due tronconi principali della Guerra Grande – come Limes definisce lo scontro sempre meno indiretto fra le potenze massime, Stati Uniti, Russia e Cina – verrebbero così a integrarsi.

Non era questo il piano di Israele né delle altre potenze regionali prima del 7 ottobre. Né era nemmeno l’intenzione di Hamas, quando ha lanciato l’attacco allo Stato ebraico culminato nel massacro di circa 1.200 israeliani nell’area intorno alla Striscia. Ma, si sa, le guerre spesso nascono e si dilatano al di là di ogni pianificazione. In questo caso, diventano molto più pericolose perché imprevedibili. Gli attori coinvolti devono improvvisare o riadattare vecchi piani di emergenza, in un contesto completamente diverso da quando furono redatti.

La miglior guida per intendere senso e possibili evoluzioni della guerra di Gaza è partire dai dati di realtà. Il primo dei quali riguarda la totale asimmetria fra i belligeranti. Una organizzazione politico-militare di massa come Hamas, che si serve del terrorismo per tenere sotto scacco lo Stato ebraico e rivelarsi utile al suo patrono iraniano, contro uno Stato sviluppato e potente, per quanto ridotto in termini di popolazione e di spazio, quale Israele. Fra l’altro, unica potenza atomica regionale, impegnata a impedire che le si affianchi il Nemico con la N maiuscola, la Repubblica Islamica di Iran, che da molti anni cerca di dotarsi di un proprio arsenale nucleare.

 

2. Riavvolgiamo la pellicola e torniamo al 7 ottobre, di prima mattina. Scatta allora l’operazione di Hamas che sorprende totalmente le Forze di difesa israeliane e culmina nel massacro di civili, tra cui donne e bambini, oltre che nell’uccisione o cattura di centinaia di militari con la Stella di Davide. Lo shock è impressionante. Soprattutto a causa della convinzione dominante nell’establishment israeliano che la questione palestinese fosse in naftalina a tempo indeterminato. Il ritiro da Gaza nel 2005 prevedeva infatti il passaggio di testimone all’Autorità nazionale palestinese per il controllo della Striscia, invece presto sopraffatta da Hamas. Ma questo non aveva intaccato la sicurezza di Gerusalemme. In fondo erano stati propri gli israeliani a favorire la nascita di quel movimento islamista, originariamente filiazione dei Fratelli musulmani d’Egitto, per metterlo in competizione con l’Olp di Arafat, nazionalista laica.

Malgrado i periodici “tagli dell’erba” – operazioni militari limitate in risposta ai lancia di missili di Hamas da Gaza – si era ormai stabilito un regime di tolleranza reciproca fra quel gruppo bollato terrorista e Israele. Al punto che i servizi segreti israeliani garantivano i finanziamenti di matrice qatarina che mensilmente giungevano nelle mani dei leader della Striscia, per finire inghiottiti chissà dove. Certo in buona parte devoluti a costruirsi un arsenale militare e delle infrastrutture speciali, quali i tunnel, contro cui oggi i soldati di Israele incontrano serissime difficoltà. Tanto da ricorrere ai bombardamenti indiscriminati che insieme ai terroristi fanno strage di civili.

Non sappiamo quanti mesi durerà la battaglia per Gaza. Israele non può lasciarla incompiuta. Ma allo stesso tempo difficilmente eliminerà totalmente Hamas. È quindi probabile che a un certo punto, avendo ottenuto il minimo necessario a ostentarsi vittorioso, Netanyahu ordinerà di ritirare il grosso dei suoi uomini per dedicarli ad altri teatri, ben più strategici. A cominciare dal Libano.

Se allarghiamo lo sguardo alla regione, notiamo come dal punto di vista israeliano Hamas non sia certo considerabile una minaccia esistenziale per lo Stato ebraico, ma solo un agente pericoloso dell’Iran. Arma non letale. Comunque meno rilevante di Hizbullah, il movimento sciita che controlla gran parte del Libano, in stretta connessione con Teheran e Damasco. Già dall’inizio della controffensiva su Gaza gli sciiti libanesi hanno accentuato la pressione su Israele, grazie al loro formidabile arsenale missilistico. Ma senza scatenare l’inferno. E anzi tenendo a fare sapere che dell’operazione di Hamas non sapevano nulla. Non importa se vero o falso, segnale che Teheran non intendeva finire nel mirino di un’eventuale rappresaglia israeliana, probabilmente supportata dagli Stati Uniti.

Con il passare delle settimane la tensione sul fronte Nord di Israele non si è affatto attenuata. Per certi versi è persino superiore a quella intorno e dentro Gaza. Di qui la pianificazione da parte di Gerusalemme di un attacco contro il Libano e la contestuale contro-mobilitazione di Hizbullah. L’allargamento del conflitto al Paese dei Cedri e quindi forse alla Siria cambierebbe completamente la scala della guerra. Ma per Israele potrebbe rivelarsi prima o poi una necessità.

Occorre considerare infatti che da diversi anni è in corso nei laboratori strategici israeliani un dibattito, parzialmente pubblico, sul concetto di Vittoria Decisiva. Sinonimo di vittoria che garantisca non l’eliminazione totale dei nemici, impossibile, ma crei un grado di deterrenza tale da sconsigliarne eventuali velleità di rivincita. Idea ambiziosa. Ma che si spiega con il fatto che dopo tre quarti di secolo di precarietà geopolitica permanente Israele sente l’obbligo di “normalizzare” la sua situazione. Non si può vivere sempre con il fucile al piede. Vale anche per un popolo abituato a stare sempre all’erta – anzi, vale soprattutto in questo caso.

Il quadro dovrebbe essere completato dall’annessione di Giudea e Samaria – ovvero la Cisgiordania occupata. Qui Gerusalemme ha scelto una versione leggera del compromesso di Gaza. Ha subappaltato formalmente – perché di fatto Israele controlla tutto – i territori occupati all’Autorità nazionale palestinese, quanto di meno autorevole si possa immaginare. Ma i coloni stanno profittando della guerra a Gaza e del supporto di unità speciali dell’esercito per avanzare in terre finora gestite dai palestinesi, per costruirvi nuovi insediamenti. Il capofila di questa operazione è il ministro delle Finanze e viceré di fatto di Giudea e Samaria, Bezalel Smotrich. Estroverso leader di una formazione di ultradestra, che predica la necessità di annettere tutta la Terra di Israele. Non solo la Cisgiordania, ma in futuro anche la Transgiordania – oggi Regno di Giordania – oltre a porzioni di Libano e di deserto egiziano.

Il piano di Smotrich può apparire estremo. Ma nella congiuntura attuale nessun sogno appare più proibito. Israele ha confermato di essere insensibile alle pressioni esterne. Gli stessi americani si sono subito resi conto di quanto la loro presa su Gerusalemme sia ridotta. Certo gli israeliani non possono permettersi di rompere con Washington, ma sono convinti che alla fine Biden o il suo successore dovranno accettare i fatti compiuti.

Di sicuro è morta, ammesso sia mai vissuta, l’utopia dello Stato palestinese. Lo Stato unico è oggi un dato di fatto. Gerusalemme potrebbe completare l’opera annettendo formalmente Gaza (ma non è così rilevante) e soprattutto Giudea e Samaria. Agli arabi che abitano quelle terre la scelta fra restarvi come cittadini di serie B o C, andarsene in diaspora o prendere le armi, nel qual caso le Forze di difesa israeliane ricorrerebbero ai mezzi estremi, come quelli adesso sperimentati a Gaza.

 

3. Quello descritto è lo scenario della Vittoria Decisiva. Quanto può apparire realistico? La risposta tende al negativo. Oppure al positivo, ma a prezzi difficilmente sopportabili.

Vediamo quali sono i minus che Israele deve considerare. A partire dal clima sociale oggi vigente. Nelle prime settimane successive al 7 ottobre si è avuta l’impressione che la grande maggioranza dell’opinione pubblica sostenesse la rappresaglia voluta dal governo di destra e ultradestra diretto da un premier che finirà presto a processo per vari reati precedenti alla guerra. Con il passare delle settimane inevitabilmente questo consenso è destinato a diluirsi, anche perché i costi economici del conflitto sono enormi. Accentuati dal fatto che il grosso dei combattenti israeliani è formato da riservisti chiamati al fronte. Molti di loro rappresentano il meglio degli apparati dell’industria delle alte tecnologie, in cui Israele primeggia. Costringerli al fronte per mesi, se non per anni, implica perciò danni strutturali alla spina dorsale dell’economia nazionale.

Di più. Osservando in profondità il clima sociale, si nota come dietro la coesione determinata dal 7 ottobre proceda la tribalizzazione del popolo israeliano. Fenomeno denunciato nel 2015 in un famoso discorso dal presidente dello Stato, Reuven Rivlin, esponente del Likud, lo stesso partito di destra cui appartiene Netanyahu. Rivlin osservava come nella società israeliana crescessero parallelamente diverse tribù, con scarsi punti di contatto fra loro. Ad esempio, gli arabi, pur sempre il 20% della popolazione dello Stato della nazione ebraica, o gli haredim, ultraortodossi in rapida crescita demografica esentati, come gli arabi, dal servizio militare. Né gli uni né gli altri qualificabili sionisti. Quanto a questi ultimi, le differenze fra religiosi e laici sono evidenti, così come la tendenza di alcune comunità, quali la russa, a distinguersi se non chiudersi in sé stesse.

Tutto questo è accentuato dalla diversità dei sistemi scolastici. Le quattro principali tribù – arabi, haredim, sionisti laici e sionisti religiosi – dispongono di curriculum scolastici propri, in scuole separate. Capita così che un giovane israeliano svolga tutto il suo percorso formativo secondo pedagogie e schemi culturali largamente diversi da un altro giovane, educato in un altro sistema scolastico. Proiettato nel medio periodo, questo peculiarissimo fenomeno rischia di dividere la nazione in subnazioni incomunicanti, se non belligeranti.

Infine, come dimenticare che prima del 7 ottobre da quasi un anno erano in corso massicce manifestazioni di protesta contro la riforma del sistema giudiziario proposta da Netanyahu, che avrebbe messo fuori gioco la Corte Suprema, oggettivo contrappeso del parlamento e dell’esecutivo? Sommando questi dati strutturali e contingenti, si prevede che un giorno dopo la fine della guerra, o la sua sospensione, Netanyahu sarebbe costretto alle dimissioni e rischierebbe di finire i suoi giorni in galera. Un clima del genere non favorisce la coesione fra gli apparati e il morale delle truppe.

 

4. Come si inquadra questo conflitto nel contesto della Guerra Grande? Gli Stati Uniti hanno subito reagito alla sorpresa del 7 ottobre inviando in teatro due squadre aeronavali. Evento mai visto nel Mediterraneo e nei mari arabici dopo la fine della guerra fredda. Doppio segnale: a Israele, di solidarietà e di garanzia militare in caso di attacco dell’Iran. A Teheran: non siamo disposti a lasciare impunita una vostra aggressione allo Stato ebraico, nostro gemello più che alleato. Con un sottotesto: se c’è da fare la guerra vera, quella alla Repubblica Islamica, la faremo noi americani, secondo i nostri metodi e con i nostri obiettivi. Perché degli israeliani, in specie di questo governo e del suo premier, non ci fidiamo troppo.

Non era esattamente quanto alla Casa Bianca speravano. Negli ultimi anni la linea americana in Medio Oriente era chiara: manutenzione da lontano, senza impegni militari troppo costosi; sostegno al Patto di Abramo, in modo da stabilizzare il campo e unire le forze anti-iraniane, da Israele alle petromonarchie del Golfo e oltre; tenere sotto controllo le ambizioni turche, spesso esagerate, allo stesso tempo puntando su Ankara per il contenimento delle mire russe e cinesi verso i mari caldi. Il 7 ottobre ha sconvolto questi piani e costretto Biden a implicarsi nella guerra fra Hamas e Israele.

L’amministrazione americana ha cercato con scarso successo di moderare l’istinto di vendetta israeliano. Interessante e rivelatore il monito di Biden a Netanyahu: “Non ripetete i nostri errori”. Dove per errori s’intende la guerra al terrorismo. Singolare presa d’atto del fallimento di vent’anni di mobilitazione contro i gruppi terroristi islamici, culminati nelle guerre di Afghanistan e Iraq. Doppio fallimento, che brucia ancora. Mai prima il presidente americano aveva esplicitamente ammesso che Washington non avrebbe dovuto infilarsi in guerre logoranti, senza sbocco. Due guerre che hanno contribuito a minare il morale della nazione e a convincere i rivali russi e cinesi che il Numero Uno era in declino inarrestabile e che ci fosse spazio per avventure impensabili fino ad allora: invasione dell’Ucraina docet.

Il problema per gli Stati Uniti è che Israele si è rivelato piuttosto impermeabile alle loro pressioni. La moderazione non è compatibile con lo scenario della Vittoria Decisiva. E quando la partita viene percepita esistenziale, Israele non fa sconti nemmeno agli amici americani. Si aggiunga l’ostilità politica e personale fra Biden e Netanyahu e si avrà idea di quanto acrobatica debba essere la tattica statunitense nel caos mediorientale. Con un principio di fondo: non finire direttamente in guerra, perché il paese non lo sopporterebbe. E perché sarebbe un disastro per Biden nell’anno elettorale (ammesso che sia lui il candidato democratico).

Quanto alla Russia. La deviazione dell’interesse dell’opinione pubblica occidentale dalla guerra in Ucraina a quella in Israele è ideale per Putin. Così come la necessità americana di rifornire di armi e munizioni gli israeliani invece che di concentrarsi sugli ucraini. Ma la destabilizzazione del Medio Oriente potrebbe coinvolgere la Siria, base avanzata di Mosca nella regione, e riflettersi nell’area fra Mar Nero, Caspio e Caucaso. Il vantaggio immediato potrebbe risolversi presto in crisi.

La Cina non è coinvolta nel conflitto, ma ne risente le conseguenze. In particolare, la destabilizzazione delle rotte commerciali terrestri e marittime fra Asia, Africa ed Europa, a cominciare dalla direttrice Mar Rosso-Mediterraneo, è problema molto serio per Pechino. Così come la sospensione dei progetti infrastrutturali che coinvolgevano Israele, anche per aggirare via terra il collo di bottiglia di Suez. L’atteggiamento relativamente moderato e attendista assunto da Xi Jinping negli ultimi mesi scommetteva su un abbassamento generale della tensione. Ipotesi tutta da dimostrare.

Lo scontro per Gaza è solo l’inizio di una ripresa della tensione in tutta l’area. Siamo molto vicini a casa nostra. Non resta che allacciare le cinture di sicurezza. Ma dove sono finite?