Paolo Soldini

Paolo Soldini

giornalista.

I Verdi tedeschi, un esempio in controtendenza

All’inizio del 2001 sui giornali tedeschi infuriò una polemica sul passato di Joschka Fischer, il campione dei Verdi tedeschi che era diventato vicecancelliere e ministro degli Esteri nel governo rosso-verde guidato da Gerhard Schröder. Fischer era accusato di aver colpevolmente flirtato, negli anni Settanta, con i terroristi della Rote Armee Fraktion. Poco tempo dopo, un’altra brutta polemica investì i Grünen: alcuni furono accusati di aver sostenuto, sempre negli anni Settanta, tesi giustificative della pedofilia.

Il cemento sovranista del gruppo di Visegrad

Nel febbraio del 1991 i leader di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia decisero di creare qualcosa che tenesse insieme le loro ragion d’essere mentre l’Unione Sovietica si inabissava nel caos e il Patto di Varsavia era bello che morto. Per riunirsi scelsero una cittadina sulle rive del Danubio, dove il fiume piega a Sud verso Budapest. Lo fecero con un certo senso della storia: a Visegrad che già nel nome, più slavo che ungherese, evoca destini comuni, s’era tenuto più di sei secoli e mezzo prima, un altro consesso con gli stessi obiettivi. Nel 1335 Carlo Roberto I d’Angiò, re d’Ungheria, Giovanni I di Boemia e Casimiro III di Polonia avevano cercato di dipanare i fili intricati degli interessi dinastici e delle controversie religiose, etniche e linguistiche per garantire la pace in quella parte della cristianità.

Rudi il più rosso

A Berlino c’è una Rudi-Dutschke-Straβe. È nel quartiere di Kreuzberg, vicino al vecchio confine segnato dal Muro, e fa angolo con la Axel-Springer-Straβe. Chiunque conosca un po’ la storia della Germania del dopoguerra e chiunque abbia qualche frequentazione della memoria del Sessantotto è in grado di apprezzare il valore simbolico di quella vicinanza. Non sappiamo se essa fu voluta consapevolmente dall’amministrazione di sinistra che prese la contestata decisione di accogliere Rudi il rosso nella toponomastica cittadina. Forse sì, forse fu un caso. Resta il fatto che quella topografia racconta due storie che si intrecciarono drammaticamente proprio lì, a due passi dal grattacielo che Axel Springer, l’editore, il capitalista d’assalto, il crociato della libertà occidentale contro comunisti e anarchici d’ogni bandiera, aveva fatto costruire a ridosso del Muro, cosicché ogni berlinese dell’Est alzandosi la mattina e andando a letto la sera vedesse che c’era e che cosa stava lì a rappresentare.

Oskar Lafontaine, il Napoleone della Saar

Verso la fine degli anni Novanta si conquistò sulla stampa britannica il titolo di “uomo più pericoloso d’Europa”. Oskar Lafontaine, allora presidente della SPD, il più antico e forte dei partiti socialdemocratici del continente, voleva una completa armonizzazione della fiscalità nei paesi dell’Unione e una riforma delle istituzioni che portasse a una vera politica economica comune, da finanziare con una tassazione delle transazioni finanziarie. Cibo del diavolo per gli inglesi: non solo per gli eredi spirituali di Margaret Thatcher, ma anche per i brillanti decisionisti del New Labour di Tony Blair che intanto erano saliti al potere a Londra e che in quell’estremismo europeista vedevano una specie di diabolica reincarnazione del vecchio esprit massimalista, dell’ammuffito socialismo continentale e delle sue esecrabili escrescenze burocratiche.

Gerhard Schröder, ovvero come dilapidare un patrimonio di stima politica

È un po’ come in certe famiglie, nelle quali c’è un vecchio zio che l’ha fatta grossa. Non c’è proprio l’ostracismo, perché lo zio è lo zio, ma insomma…Quando se ne parla, gli sguardi non si incrociano e se ci sono i bambini gli si dice che non sono cose per loro. Molti ricorderanno la scena di un paio di mesi fa, quando uno dei conduttori dell’ultimo dibattito televisivo prima delle elezioni federali tedesche chiese a Martin Schulz che cosa pensasse della notizia arrivata fresca fresca nelle redazioni dei giornali: Gerhard Schröder stava per essere nominato presidente del Consiglio di sorveglianza della Rosneft, il colosso russo dell’energia sotto bando (teorico) per le sanzioni comminate dall’Unione europea a Mosca per l’Ucraina.