Rischio e merito

Written by Nicola Rossi Sunday, 02 March 2008 20:53 Print

Provate a domandare ad un campione rappresentativo di italiani se preferiscono un lavoro sicuro ma meno redditizio ad uno meno sicuro ma con prospettive di reddito più interessanti. Provate a domandare agli stessi italiani se eventuali aumenti salariali dovrebbero essere distribuiti in maniera uguale a tutti i dipendenti di una data impresa o se invece dovrebbero essere concentrati sui dipendenti a più elevata produttività. E ancora se, guardando in avanti, immaginano orizzonti piatti o profili di vita dinamici e frontiere che si spostano incessantemente in avanti. E provate a leggere le risposte a queste domande, guardando alla composizione per età del campione.

Provate a domandare ad un campione rappresentativo di italiani se preferiscono un lavoro sicuro ma meno redditizio ad uno meno sicuro ma con prospettive di reddito più interessanti. Provate a domandare agli stessi italiani se eventuali aumenti salariali dovrebbero essere distribuiti in maniera uguale a tutti i dipendenti di una data impresa o se invece dovrebbero essere concentrati sui dipendenti a più elevata produttività. E ancora se, guardando in avanti, immaginano orizzonti piatti o profili di vita dinamici e frontiere che si spostano incessantemente in avanti.[1] E provate a leggere le risposte a queste domande, guardando alla composizione per età del campione.

Vi troverete così di fronte ad un paese in buona misura – non del tutto, per fortuna – senza età e senza futuro. Le opinioni dei meno giovani vi sembreranno indistinguibili da quelle dei più giovani e quelle di questi ultimi visibilmente passive e arrendevoli. Faticherete non poco a trovare i segni dell’audacia e dell’ambizione. A sessanta come a vent’anni. Faticherete ancor di più a trovare quei segni fra gli elettori di centrosinistra. Fra quelli che lo sono da tempo e quelli cui solo da poco è stata data questa possibilità.

  

Domanda 1 Alcuni preferiscono nella vita un lavoro sicuro, anche se magari meno redditizio, altri preferiscono un lavoro meno sicuro ma con più prospettive di reddito. Lei con chi si sente d’accordo?

 

Risposta 1 Con i primi (71% nel complesso del campione, nel 2001 era il 59%; 62% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni; 68% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni che si autocolloca nel centrosinistra).

 

Domanda 2 Supponiamo che un’impresa stia attraversando un periodo florido e decida di aumentare lo stipendio ai propri dipendenti. Secondo lei sarebbe più giusto se questa aumentasse lo stipendio a tutti i dipendenti in modo eguale o a quelli che ne hanno più bisogno oppure a tutti i dipendenti, ma in particolare a coloro che hanno lavorato meglio?

 

Risposta 2 A tutti i dipendenti in modo eguale o a quelli che ne hanno più bisogno (36% nel complesso del campione; 44% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni).

 

Domanda 3 Secondo lei per un giovane di 20-30 anni, c’è oggi una effettiva opportunità di crescita lavorativa e di affermazione professionale nel nostro paese?

 

Risposta 3 Sicuramente o probabilmente no (53% nel complesso del campione; 58% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni; 61% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni che si autocolloca nel centrosinistra o a sinistra).

 

E, del resto, perché dovrebbe essere diversamente? Ad esempio, che cosa sono stati i giovani per la politica in questi ultimi anni? I titolari potenziali di un prestito agevolato e di una casa ad equo canone. I flessibili, se si era in maggioranza, e i precari, quando si era all’opposizione. Gli spettatori di una notte al Circo Massimo. I fedeli della religione dell’abrogazione a prescindere. I frequentatori di una palestra fiscalmente deducibile. Non diversamente da ciò che per la politica sono state tante altre categorie professionali o tanti altri gruppi sociali.

Mai però quel che qualunque giovane dovrebbe essere per la politica. I destinatari di un solo messaggio, semplice e inequivoco: «lavorate per sostituirci e fatelo dimostrando a voi stessi e agli altri che siete semplicemente migliori di noi; più capaci di interpretare il vostro tempo; più adatti a disegnare il futuro».

Casuale? No, di certo. La cultura della classe politica italiana è arrivata solo con enorme ritardo e profonda riluttanza ad accettare l’idea di concorrenza e di competizione (e la storia professionale delle leadership di quest’ultimo quindicennio, più contigua con i temi del monopolio che con quelli della concorrenza perfetta, lo testimonia ampiamente), ma lo ha fatto – quando lo ha fatto – ponendo a se stessa un limite invalicabile: di concorrenza fra merci e (forse) servizi si poteva (forse) parlare, non altro. Certo non di concorrenza e competizione fra teste e idee. E non c’è esempio migliore di competizione fra teste e idee di quello rappresentato dal conflitto generazionale. Ora, qualcuno ricorda – non più tardi di sette-otto anni fa – come evocammo, soprattutto a sinistra, quel conflitto? Come ne allontanammo da noi anche solo l’ombra? Come tanti fra noi si ritrassero, inorriditi (e per lo più dimentichi del loro stesso passato) solo davanti al balenare di un contrasto? O, per converso, giulivi ne dichiararono la pericolosità?

E con quella scelta – e con tante altre ancora (non ultima quella di considerare le sconfitte elettorali come momenti formativi più che conclusivi di una carriera politica) – scegliemmo, senza dirlo, di fare delle parole «rischio» e «merito » poco più che due termini da utilizzare per il loro suono e non per il loro significato reale.

Si dirà che in questo la politica non ha fatto altro che rispecchiare la società. Che cosa sono le parole «rischio» e «merito» per il mondo delle professioni? Perché rischiare e a che serve il merito all’ombra delle corporazioni? E che cosa sono le parole «rischio» e «merito» per tanta parte del mondo delle imprese? Dove non mancano gli esempi di carriere manageriali costruite pazientemente nel tempo, dissesto dopo dissesto. Rischio e merito: spesso – non sempre, per fortuna – nulla più che suoni, appunto. E cosa sono per il luogo che dovrebbe esserne il tempio, l’università? Un’università nelle cui aule campeggia in bella evidenza la scritta: «Attenzione: il merito discrimina. Usare solo in casi di assoluta emergenza». E cosa per il mondo della pubblica amministrazione – quello dei 150.000 assunti senza concorso della legge finanziaria per il 2007, per intendersi – dove il messaggio è espresso con toni solo apparentemente diversi: «Qui non si assumono responsabilità»?

Ma sotto questo profilo la politica è andata forse molto oltre. Grazie alla legge elettorale in vigore, il parlamento ha conosciuto un ringiovanimento significativo e ci offre oggi un test immediato di come le classi politiche intendano il rapporto fra generazioni. Un test illuminante: molte giovani persone serie, spesso di grande passione civile, allevate però nella mistica della cooptazione.

Completamente refrattarie all’idea per cui l’avvicendamento delle classi politiche avviene – si devono citare i casi di alcuni paesi europei? – per differenziazione e non per omogeneizzazione, nella lealtà ma non nella fedeltà. Attraverso uno scontro civile, ma a volte anche duro.

Comunque aperto. Per avvicendamento anche brusco e non per progressiva, estenuante osmosi (così da garantire che una classe dirigente diventi tale solo se e quando è definitivamente esausta). Refrattarie non per caso o per scelta, ma perché pazientemente e quotidianamente educate in questo senso. Rischio? Merito? Di che parliamo?

Eppure, è in quelle parole la chiave del dinamismo di una società. Lo era, lo è e – quel che più importa in questo momento – lo sarà ancor più nel futuro. Per il ruolo che la conoscenza e i talenti avranno in quella società. Ma come per i giovani, non esiste una politica per il rischio e per il merito. Non ci sono interventi specifici. Non ci sono fondi da individuare all’interno del bilancio dello Stato o, come si dice, «politiche di settore». Non c’è un menu da compulsare freneticamente nella notte fra il 29 e il 30 di settembre per poter annunciare al mondo, il giorno dopo, che è stato compiuto un «nuovo, decisivo, passo in avanti». No. Il rischio e il merito non sono «una» politica ma, se ci sono, sono il modo di essere della politica. Devono informare di sé (tutte) le scelte della politica.

Rischio e merito sono una piena autonomia – anche dal lato delle entrate e del reclutamento – delle istituzioni universitarie e un ampio programma di borse di studio per i più meritevoli (acqua, acqua…). Rischio e merito sono una difesa equilibrata, ma intransigente delle ragioni della concorrenza e del mercato anche nei comparti più politicamente difficili (fuochino, fuochino…). Rischio e merito sono una pubblica amministrazione al servizio – sul serio!

– dei cittadini ed esposta al loro giudizio (acqua, acqua, acqua…). Rischio e merito sono un decentramento associato ad una compiuta responsabilità fiscale (focherello, focherello, focherello…). Rischio e merito sono una politica industriale centrata sulle precondizioni della ricerca industriale e sulla tutela dei suoi risultati più che sulla ricerca stessa (acqua, acqua…). Rischio e merito sono la prevalenza del sistema contributivo sul sistema retributivo, la nascita dei fondi pensione, la costruzione di un sistema di prestiti a tasso zero per le contribuzioni dei lavoratori discontinui, la riforma degli ammortizzatori sociali (fuoco, fuoco, fuochino, fochetto, acqua, acqua…). Rischio e merito sono una classe politica che non presume sempre e comunque di saperne più dei suoi elettori, in qualunque campo e per qualunque argomento (acqua, acqua, acqua…).

Comunque, niente paura. Al rischio e al merito ci arriveremo, perché non potremo fare a meno di arrivarci. Tardi e male, purtroppo, ma ci arriveremo, perché settori importanti delle professioni e dell’impresa e solitarie individualità nella pubblica amministrazione ci sono già arrivati. Perché – complice la rete, gli Erasmus, o l’Interrail – ci sono già arrivati non pochi giovani. Per lo più da soli, rischiando e meritando. Perché vivono e operano in un mondo più grande. È – sia detto senza spirito politicamente polemico – l’Italia dei «volenterosi». Di quelli che, pur se in Italia, fanno banca in Europa. Che, dall’Italia, vendono scarpe in Cina o automobili in India. Che hanno fatto della Romania una seconda patria economica. Che hanno imparato che la Polonia è Europa. Che insegnano negli Stati Uniti o trattano affari a Londra. Che studiano in Spagna. Vivono e operano – direttamente o indirettamente – in un mondo più grande. Un mondo in cui si corre il «rischio» di pensare che la politica non serve, perché non «merita».

  

Domanda 4 Mi dica se e in che misura la seguente riforma può favorire le opportunità lavorative e la crescita dei giovani: una riforma del sistema scolastico e universitario che favorisca la concorrenza tra gli istituti e le università, al fine di elevare il livello e premiare gli studenti più meritevoli.

 

Risposta 4 Molto o abbastanza (66% nel complesso del campione; 64% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni; 71% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni che si autocolloca nel centrosinistra o a sinistra).

 

Domanda 5 Mi dica se e in che misura la seguente riforma può favorire le opportunità lavorative e la crescita dei giovani: una riforma che riduca l’età pensionabile in moda da generare nuovi posti di lavoro.

 

Risposta 5 Poco o per nulla (28% nel complesso del campione; 26% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni; 31% nel complesso della popolazione fra i 18 e i 34 anni che si autocolloca nel centrosinistra o a sinistra).



[1] L’ha fatto recentemente Renato Mannheimer (Manners Ardi Srl) per LibertàEguale, intervistando un campione rappresentativo della popolazione italiana di circa 2.000 individui (di cui poco meno di 600 di età inferiore ai 34 anni) fra l’8 e il 10 settembre 2006. Lo ringrazio per avermene consentito l’uso.