Come nel film “Tutta la vita davanti”

Di Rosa Fioravante Giovedì 07 Settembre 2017 14:28 Stampa

 

Capita ogni tanto di sentirsi come se si vivesse in un film. Il mio sarebbe la pellicola di Virzì del 2008 “Tutta la vita davanti”. Il film comincia con la discussione della tesi in Filosofia, conclusasi con ba­cio accademico, della protagonista. Il mio, o almeno le scene che vi propongo qui, con l’iscrizione allo stesso corso di laurea. Ho sem­pre creduto che, specialmente in un momento di crisi dei valori che investe tutta la civiltà occidentale, fosse necessario più che mai il ripensamento dell’orizzonte di senso entro il quale riflette e agisce la nostra società e delle nuove ideologie, sorte con il crollo di quelle del Ventesimo secolo e con la globalizzazione.

Un mestiere da umanisti, un mestiere da filosofi, uno fra i più pre­ziosi dell’oggi pur avendo origini antiche. Scriveva già Platone nel “Simposio”: «Del resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne parla­no in mia presenza, provo la gioia più grande. Al contrario, quando sento parlare certe persone, e soprattutto i ricchi, i banchieri, quelli che parlano d’affari, la gente come voi, allora mi annoio e ho anche un po’ pena per voi, che credete di fare chissà cosa e invece fate cose che non valgono niente. Da parte vostra, del resto, mi giudicate un poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che siate voi dei poveretti, questo non lo sapete affatto, e io invece lo so». Così, contro la bom­bardante retorica che dice da anni ai ragazzi con qualche ambizione di studiare cose “utili”, io ho deciso di studiare una cosa “nobile”, senza potermi permettere di esserlo. Sono figlia di quella che giorna­listicamente viene chiamata la “classe media che si impoverisce”: cioè non sono povera ma ho bisogno di lavorare, non sono affamata ma quando c’è un’emergenza in famiglia è un problema trovare le risorse per sopperirvi.

Negli anni degli studi ho fatto per qualche tempo la commessa: in un negozio di scarpe con un contratto di collaborazione periodica, a 6 euro l’ora; poi in un negozio di abbigliamento senza contratto, a 4,50 euro l’ora. Una collega mi disse “sei fortunata, quando ho cominciato io erano 3”. Come commesse eravamo tenute anche a pulire il negozio, scaricare i pacchi dei rifornimenti, occuparci degli impianti audio del locale ecc. La titolare entrava e usciva dal negozio controllando che fossimo sempre occupate: an­che quando non c’erano clienti era vietato fare pausa, ci disse che dovevamo scombinare le men­sole e ripiegare gli abiti anche se erano già piegati per dare l’impressione di essere sempre occupate. Le mie due colleghe prendevano circa 1000 euro al mese, una delle due aveva lavorato in quell’e­sercizio commerciale in nero per anni prima di avere il contratto. Il lavoro era un po’ noioso ma certamente non dei peggiori, bisognava stare in piedi nove ore al giorno praticamente senza muoversi, quando non c’erano clienti il tempo non passava mai nonostante si riordinassero le mensole. Se non si vendeva, la titolare, che ogni giorno veniva a controllare gli incassi in serata, se la prendeva con noi. Io arrivavo ogni mattina con “Il Sole 24 Ore” in borsa, era il 2009 e pensavo alla crisi economica, pensavo a quel negozio (di una nota catena di abbigliamento casual) che aveva tutti i capi made in Vietnam di tessuti scadenti, sapevo in che condizioni quei capi erano confezionati, sapevo che se i proprietari potevano pagare me in nero solo 4,50 euro era perché chi cuciva quegli abiti ne prendeva 1, forse meno. Sapevo troppe cose per sentirmi al mio posto e allo stesso tempo ne sapevo troppo poche perché quello non fosse il mio posto. Per fortuna le clienti apprezzavano i miei consigli e la titolare, quando le dissi che me ne andavo perché la paga era misera, mi rispose sdegnata che avrei dovuto per correttezza dare maggiore preavviso. Ho a lungo ripensato al concetto di “correttezza” che mi veniva proposto in quella occasione. Qualche anno dopo mi sono laureata, prima la triennale e poi la magistrale. Ed eccoci alla scena iniziale di “Tutta la vita davanti”: una lunga serie di curricula spediti in quel buco nero dove finiscono in Italia (e probabilmente non solo) i curricula.

Qualche anno dopo mi è capitata l’offerta di un posto di receptio­nist/telefonista part-time. L’ho presa al volo. Ormai mi ero laureata da mesi: le nulle risposte ai curricula mandati e l’incertezza di avere qualità o possibilità sufficienti per accedere alla carriera accademica mi hanno persuasa a non lasciarmi scappare l’unica offerta concreta, ovviamente apertasi grazie alla segnalazione del mio nome da parte di un comune amico a co­loro che facevano la selezione. L’Italia potrebbe apparire una Repubblica fondata sul lavoro, ma è una Repubblica fondata sull’amico dell’amico. Mi fecero due colloqui: durante il primo l’inter­vistatore, dopo la serie di domande di rito, mi chiese come mai una persona colta e brillante come me volesse fare un lavoro del genere. Gli risposi la verità, e cioè che pensavo mi avrebbe lasciato tempo per scrivere e studiare. Il contratto era re­golare e il lavoro alienante: considero il saldo delle due osservazioni senza dubbio positivo. La mansione consisteva nel reindirizzare le chiamate agli uffici e aggiornare il database che mi era stato affidato, chiamando un’interminabile lista di nominativi della Milano-bene e chiedendo loro un indirizzo mail. In tre quarti delle case mi rispon­deva qualcuno che parlava a stento in italiano e diceva che la signora/ il signore non era in casa. Avere a che fare con i ricchi ha molti lati positivi, fra i quali il meno trascurabile è la buona educazione, moti­vo per cui non ho mai registrato episodi particolarmente spiacevoli.

Il capo era cordiale, profondamente cattolico, dal taccuino del Parti­to Popolare Europeo che teneva sulla scrivania capì che era di orien­tamento politico di centrodestra. Una volta mi chiese cosa studiassi e gli risposi con qualche tentennamento “le ideologie della globalizza­zione”, replicò prontamente “anche basta globalizzazione!”, rimasi di stucco: con qualche banalizzazione era un’argomentazione abbastan­za simile alla mia. Alcuni pomeriggi feci fotocopie, altri spostai pile di raccoglitori. La mansione era quello che era ma l’ambiente non era mai sgradevole.

Le ore peggiori della giornata erano quelle da pendolare: per pagare una stanza in affitto a Milano (spese escluse) avrei dovuto guada­gnare il doppio del mio stipendio; ci mettevo di più ad andare e a tornare dal luogo di lavoro che il tempo effettivamente speso lì. Quando Jean-Paul Sartre ha scritto che “l’inferno sono gli altri” sono abbastanza convinta che si riferisse al treno Milano Cadorna-Saron­no delle 18:30. Mentre viaggiavo pensavo spesso a tutti coloro che hanno percorso la stessa tratta ogni giorno per quarant’anni, pensavo alla famosa scena di Fan­tozzi al mattino quando cerca di prendere l’au­tobus lanciandocisi sopra dal balcone. Fissavo il volto stanco di uomini e donne reduci da lun­ghissime ore in ufficio che si trovavano accalcati all’inverosimile pestandosi i piedi a vicenda più o meno involontariamente, curiosa metafora del tempo moderno. La mia paga era assolutamente dignitosa se rapportata alle ore di lavoro e al ca­rico richiesto. Dopo un mese e mezzo però avevo assorbito la routine, non studiavo più, non riu­scivo a seguire le vicende politiche che solitamente mi appassiona­vano; poco male per la seconda cosa, non nutrendo in quel periodo forti entusiasmi per nessun progetto avevo già lasciato qualunque carica attiva, mentre mi sentivo assai peggio per la prima. Quando non lavoravo pensavo alle ore che mi separavano dall’entrare al tur­no e iniziavo a comprendere la frase di Primo Levi secondo la quale «l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costi­tuisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra».

Un giorno, aspettando il treno del ritorno in stazione, incontrai una cara amica del liceo di provincia dove ho studiato e con la quale da qualche tempo ci eravamo perse di vista; lei si era laureata a pieni voti senza neppure un giorno di fuori corso in Beni culturali, in una prestigiosa università privata. Mi disse che anche lei aveva trovato un’occupazione simile alla mia ma full time, così full che usciva di casa la mattina alle 6 e tornava spesso la sera alle 22; come me soffriva il pendolarismo ma lei aveva il cruccio degli straordinari non pagati perché aveva un contratto di stage più volte rinnovato e un rimborso spese inadeguato a pagare un affitto in città. Mi disse che era l’unica cosa che aveva trovato ed era anche contenta, mentre io scuotendo la testa le risposi che non mi sarei arresa. Il treno pendolari si riempì dei nostri sospiri, ci guardavamo con atteggiamento fra l’imbarazzato e il solidale, chiudemmo la conversazione con qualche considerazione malinconica sul fatto che i week-end sono troppo brevi. Non dice­vano così gli slogan delle assemblee a cui partecipavo? “Vogliamo equilibrio fra i tempi di vita e di lavoro”. Lei non ha mai seguito la politica, nel posto dove era impiegata in precedenza le avevano fatto un contratto a chiamata a 600 euro al mese per 8 ore e mezzo di lavoro al giorno da lunedì a venerdì, ricordo di averle consigliato di rivolgersi a un sindacato ma non lo fece mai.

Conosco decine di queste storie, a qualcuno è andata un po’ meglio, a qualcuno un po’ peggio. Siamo choosy? Siamo poltronari? Siamo la generazione Erasmus? Siamo millennial? Cosa siamo? La mia non è una “storia-caso”, di quelle che alla sinistra politica piace portare sul palco per commuovere o appassionare i militanti, è una storia ordinaria. Faccio parte di una classe sociale nella quale le cose peggiori e quelle migliori non ven­gono quasi mai vissute direttamente. Tuttavia, mentre quelle migliori succedono sempre più lontano, quelle peggiori accadono tutto intorno, sempre più vicino.

A 7 km da dove abito c’è il magazzino (oggi si chiama “punto di raccolta”) dove i lavorato­ri (oggi si chiamano “fornitori di prestazione”) della logistica smistano e prelevano le merci da trasportare per conto di una nota piattaforma online. Iniziano a lavorare alle 6 ma vengono pa­gati dalle 9 del mattino, quasi quanto venivo pagata io da commessa in nero nel negozio di vestiti. Qualche mese fa alcuni lavoratori di quel sito si sono organizzati clandestinamente in un feroce clima an­tisindacale per rivendicare una paga equa corrispondente alle ore la­vorate. Quando mi è capitato di incontrarli a un evento pubblico nel quale spiegavano le loro condizioni di vita, ho pensato che stessero lottando anche per me e per chiunque viva nel mio territorio. Fra le poche cose che so, una è sicuramente che quello che si sa non c’entra quasi nulla con quello che si fa e che quello che si fa spesso non cor­risponde a ciò che si è: infine, trovare il proprio posto è questione di molti fattori e nessuno di questi riguarda il “merito”.

A 5 km da dove abito l’anno scorso hanno inaugurato il centro com­merciale più grande d’Europa, sorto sulle macerie dell’Alfa Romeo. Dove lavoravano 30.000 persone oggi ve ne lavorano un decimo; non so se la fabbrica fosse poi tanto più alienante di una cassa di ipermercato. A ogni modo ho mandato il curriculum anche lì. Tutto quello che posso dire è che sono felice non mi abbiano chiamata, così ora ho del tempo da dedicare a raccontare non solo la mia storia ma soprattutto quelle di tanti altri. Ovviamente solo finché ci sono mamma e papà, i loro sacrifici, il loro lavoro.